Biofuel, al 2020 il 10% sarà di seconda generazione

I biocarburanti rischiano di provocare più danni che benefici se non sono sottoposti a criteri di sostenibilità, però non facili da definire. Si spera in quelli di seconda generazione, ricavati soprattutto da materie ligno-cellulosiche, forse prossimi alla maturità industriale e commerciale. Ne parliamo con Vito Pignatelli dell'Enea.

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I biocarburanti sono un argomento caldo del dibattito di questi ultimi anni sulle energie pulite. L’obiettivo europeo 2020 sulle rinnovabili nei trasporti – dicono diversi studi – si rivelerà controproducente per clima, ambiente e fame nel mondo se per raggiungerlo non si useranno solo i biocarburanti più sostenibili. Intanto si spera nei biofuel di cosiddetta seconda generazione, meno impattanti ma ancora a un passo dalla maturità industriale. Ne parliamo con Vito Pignatelli, responsabile del Gruppo sistemi vegetali per prodotti industriali dell’ENEA.



Professor Pignatelli, l’obiettivo europeo 2020 sulle rinnovabili nei trasporti, secondo molti studi, si rivelerebbe insostenibile se per raggiungerlo si useranno i biofuel attuali. Cosa ne pensa?


E’ un obiettivo ambizioso che, considerando tecnologie e stato dell’agricoltura attuali, non si può realizzare senza ricorrere massicciamente alle importazioni, dato che produrre i biocarburanti necessari in Europa si andrebbe in conflitto con le colture a scopo alimentare. Dovendo ricorrere alle importazioni è problematico essere certi della sostenibilità dei biocarburanti che arrivano da noi. E’ vero che esistono degli schemi di certificazione, è vero che per essere conteggiati ai fini dell’obiettivo devono rispondere a dei criteri di sostenibilità, ma resta il problema di come questa sostenibilità debba essere certificata. Oltre a questo c’è la questione del trasporto, con le relative emissioni, anche’esse da valutare.


Altra questione controversa è quella del cambio d’uso indiretto del suolo, il cosiddetto ILUC, del quale la certificazione messa appunto dall’Europa non tiene conto. Per spiegare ai lettori: se non sarà possibile usare biofuel coltivati in zone deforestate, questi, a causa dell’aumento della domanda, sottrarranno spazio alle colture alimentari, che a loro volta si allargheranno a scapito di foreste e zone ad alta biodiversità.


E’ un vero ginepraio e non tutti sono d’accordo sul come conteggiare l’impatto di questi cambiamenti della destinazione d’uso del suolo in favore dei biocarburanti. Al di là di quanto sia conteggiabile o meno, va poi detto che se si devono applicare questi criteri ai biocarburanti si dovrebbero applicare a tanti altri settori. Ad esempio, l’importazione di olio di palma è accusata di contribuire alla deforestazione in Asia, ma mentre per i biocarburanti c’è una qualche forma di certificazione ci si scorda di dire che il 95% dell’olio di palma viene destinato all’industria alimentare e dunque non è soggetto ad alcun vincolo. Altro paradosso dell’ILUC: se io decido di coltivare con pratiche più ecologicamente sostenibili, tipo il biologico, avrò un calo di resa per ettaro e dunque si dovrà usare altro suolo per compensare.


Ma, a differenza che per le colture alimentari, per i biocarburanti si parla di una domanda che prima non c’era, che si sta creando dal nulla con l’obiettivo UE 2020, pensato per ridurre le emissioni …


Certo, infatti, in prospettiva i biocarburanti andrebbero usati (per raggiungere l’obiettivo, ndr) solo laddove non si può usare altro. Occorre uno sviluppo più veloce dell’auto elettrica, ovviamente alimentata da un sistema basato sulle fonti rinnovabili. E poi c’è la prospettiva, ormai reale perché vediamo già diversi impianti alla fase pre-industriale dei biocarburanti di seconda generazione. Questi hanno un impatto minore e un migliore bilancio energetico perché – come avviene per la produzione di elettricità da biomassa – si usa tutta la pianta per produrre energia. Cosa che non avviene nei biocarburanti tradizionali. Ad esempio in alcuni tipi di biodiesel si usano solo i semi.


Anche i vari tipi di biocarburanti tradizionali hanno comunque bilanci energetici assai diversi tra loro?


Chiaro, ognuno è un caso a sé: bisogna analizzare tutta la filiera: c’è etanolo ed etanolo, c’è biodiesel e biodiesel. Bisogna diffidare dai bilanci generali, guardare che materia prima è stata utilizzata, come è stata coltivata, ecc.. Le variabili sono moltissime. Ad esempio l’etanolo da canna da zucchero o da barbabietola, se prodotto in maniera sostenibile, come si sta iniziando a fare, ha un buon bilancio, perché oltre ad estrarre lo zucchero da cui si ricava l’etanolo si bruciano i residui, detti bagassa, per ricavarne l’energia necessaria al processo. Un altro modo per avere un buon bilancio è utilizzare piante che abbiano una buona resa, che crescano su terreni residuali e che non necessitino di fertilizzanti.


Tra i biofuel attualmente in commercio qual è quello con il miglior bilancio energetico e quale quello con il peggiore?


Il migliore è l’etanolo da canna da zucchero; quelli con un bilancio più negativo sono i biodiesel da colture oleoginose se ottenute con alti input energetici: per esempio dalla soia o dalla colza se non è coltivata con le migliori pratiche e nei terreni adatti ad avere un elevata produttività. Altra produzione molto sostenibile è quella a partire da olii e grassi di recupero o da altri scarti: ad esempio l’etanolo dalla distillazione delle vinacce sottoprodotto della produzione vinicola.


A livello economico le produzioni da scarto sono competitive?


Sono competitive laddove esiste una produzione concentrata e una buona filiera di raccolta. Il punto debole delle tecnologie attuali di produzione dei biocarburanti in generale è che, avendo bisogno di grandi quantità di materie prime, necessitano di impianti molto grandi. Le economie di scala contano molto e si è visto come impianti anche tecnologicamente avanzati, ma piccoli, non hanno retto alla concorrenza. Diverso il discorso per i biocarburanti di seconda generazione, che usando tutta la pianta possono lavorare con impianti più piccoli.


A che punto siamo con questi biocarburanti di seconda generazione? Quali sono le tecnologie più mature?


Personalmente mi occupo di biofuel di seconda generazione dagli inizi, fin da quando si trattava solo di esperimenti da laboratorio e di strada se ne è fatta molta. Ad esempio, in Piemonte Mossi&Ghisolfi sta realizzando un impianto che utilizza materia prima legno-cellulosica che è già di scala pre-commerciale: darà 40mila tonnellate all’anno. Una volta realizzato sarà il più grande al mondo di questo tipo e fornirà dati di rilevanza industriale in quanto a bilanci. Molta strada si è fatta anche nella produzione di gasolio tramite gassificazione e sintesi di Fischer-Tropsch, sempre da materiali ligno-cellulosici: anche qui siamo prossimi alle prime realizzazioni industriali. Queste due tecnologie sono le più competitive al momento. Ci sono dei problemi da risolvere, ma stimo che al 2020 quelli di seconda generazione possano arrivare a fornire la richiesta quota del 10% del totale dei biocarburanti.


Per quel che riguarda invece i biocombustibili da alghe, di cui si sente spesso parlare, quando diverranno realtà?


Siamo ancora nel pieno della ricerca, non c’è nessuna attività industriale e bisogna fare ancora moltissima strada.


 


(credit foto: http: Argonne National Laboratories via flickr)

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