I trucchi della IEA sul clima

Si chiama IEA, Agenzia Internazionale dell'Energia, ma andrebbe aggiunto l'aggettivo fossile. L'Agenzia di Vienna, infatti, a parole sostiene l'Accordo di Parigi ma nei fatti favorisce le fossili mettendo i bastoni tra le ruote all'Accordo. Una ricerca svela i "lati fossili della IEA"

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L’accordo di Parigi perde i colpi. Se in precedenza una simile affermazione poteva essere fatta solo in base a osservazioni personali, ora, in attesa del prossimo rapporto dell’Ipcc, qualcuno ha trovato la “pistola fumante” che depotenzia, a soli tre anni di distanza lo “storico” accordo di Parigi sul clima.

Un rapporto uscito giovedì 5 aprile 2018, realizzato da Oil Change International e dell’Institute for Energy Economics and Financial Analysis (IEEFA), analizza gli scenari della IEA e punta il dito contro l’agenzia di Vienna circa il fatto che questa organizzazione abbia “suggerito” ai governi strategie che non vanno nella direzione dell’accordo di Parigi. Nello specifico i punti messi sotto osservazione sono tre.

Il primo riguarda il nuovo scenario politico (NPS) tracciato dalla IEA che implica un utilizzo dei combustibili fossili nei prossimi anni tale da esaurire il budget di emissioni di CO2 disponibile per l’obiettivo degli 1,5°C al 2022 e quello per i 2°C entro il 2034. Chi scrive aveva un anno fa fatto delle stime approssimative circa l’esaurimenti di questo stock al 2040.

E non basta, ed è la seconda questione, visto che lo scenario più ottimistico tracciato dalla IEA, quello per lo sviluppo sostenibile sposta di poco l’asticella: 1,5°C al 2023 e 2°C al 2040. In pratica per contenere l’aumento della temperatura entro i 2°C al 2100 dal 2040, mettendoci un forte impegno cosa che non è scontata, per i 60 anni successivi non si dovrebbe emettere un solo chilogrammo di CO2.

Le due organizzazioni che hanno realizzato il rapporto puntano il dito anche contro i livelli d’investimento nelle fossili, terza questione, previsti dallo scenario NPS. La grande maggioranza di questi investimenti, tra il 78 e il 96%, infatti, per un valore compreso tra i 11.200 e i 23.800 miliardi di dollari nel periodo tra il 2018 e il 2040, sono incompatibili con gli obiettivi di Parigi.

Insomma l’accordo di Parigi si rivela per ciò che è sempre stato, un protocollo puramente tecnico sganciato da qualsiasi base reale che faccia i conti con le reali politiche energetiche in atto a livello mondiale. Non bisogna dimenticare, infatti, che il settore energetico ha una propria “inerzia” industriale dovuta all’alto tenore degli investimenti necessari, alle logiche di mercato che sono sottostanti ai carburanti fossili e ai lunghi tempi d’ammortamento. Cosa che porta i cicli energetici fossili a una durata, minima, di 25 anni. Tradotto: ogni dollaro speso oggi in infrastrutture fossili produrrà CO2 per i prossimi 25 anni.

«La IEA promuove una visione del futuro nella quale il mondo rimane dipendente dai combustibili fossili. – afferma commentando il rapporto Greg Muttitt, direttore della ricerca di Oil Change International – Se questa è la base per le decisioni politiche e di investimento, il pericolo è che questi scenari diventino una profezia che si auto avvera. Tutti i 30 paesi membri dell’AIE hanno firmato l’Accordo di Parigi e quindi la IEA dovrebbe aiutarli a raggiungere gli obiettivi climatici, non frenarli».

Commentando la natura degli investimenti Muttit ha detto: «Abbiamo bisogno con urgenza che gli investimenti in combustibili fossili siano ridiretti verso le rinnovabili. Qualunque altra linea di condotta porterà a superare gli obiettivi fissati dai governi». Di opinione diversa il direttore esecutivo della IEA, Fatih Birol, che nel 2017 ha detto: «Il nostro messaggio per l’industria petrolifera qui a Houston è investire, investire, investire. La IEA non prevede alcun picco imminente nella domanda di petrolio».

E non è tutto qui. La condotta della IEA ha altre contraddizioni. L’agenzia, infatti sta tentando di fare iscrivere anche altri Paesi, oltre che quelli dell’OECD, con particolare attenzione verso quelli del Sud del Pianeta. E ciò, secondo gli autori del report genera due conflitti d’interesse. La IEA infatti  si aspetta che la maggior parte delle riduzioni delle emissioni si verifichi in paesi non OCSE, contrariamente al principio della responsabilità comune ma differenziata. Si tratta di una logica ingiusta che privilegia i paesi attualmente membri dell’Agenzia. Un esempio per tutti. Nello scenario SDS si prevede per l’India un taglio del 46% delle emissioni al 2040 rispetto a quello NPS, mentre per l’Europa, ricca di fondi e tecnologie si prevede un taglio del 40%.

E vedendo i calcoli presenti nel report salta agli occhi il fatto che oltre il 65% dei tagli delle emissioni, dal punto di vista assoluto, al 2040 riguarda i paesi più poveri con più problemi sociali, mentre il 35% è assegnato all’Europa, agli Usa e ai paesi OECD nel loro complesso. Si tratta di una logica che oltre a essere ingiusta tende a privilegiare le economie dei paesi ricchi che avrebbero dei costi minori per il passaggio a uno scenario a emissioni ridotte. Un vantaggio competitivo dei paesi ricchi sotto al profilo climatico. Una questione che approfondiremo in futuro.

La seconda questione è relativa agli autori del principale report della IEA il World Energy Outlook pubblicato ogni anno a novembre che nell’ultima edizione 2017 ha visto tra gli autori alcuni membri di compagnie petrolifere che erano pagati da quest’ultime durante a stesura del rapporto. Chiaro quindi che il report si sia occupato all’ottanta per cento dello scenario NPS che prevede, secondo la stessa IEA un riscaldamento globale al 2100 compreso tra i 2,7 e i 3,3 °C, ben al di sopra dei livelli massimi previsti dal’accordo di Parigi.

Tutte questioni che pongono una serie di problemi delicati. Come quello di avere nel settore energetico non solo i dati sul clima e sulla CO2 prodotti dall’IPCC, ma anche quelli puntuali relativi ai consumi delle fonti fossili divisi per combustibile, nazione e utilizzo. Se questi dati sono viziati all’origine, come provato, in favore delle fossili, diventa complicato che la politica, ammesso che ce ne sia una reale volontà, possa mettere in campo delle politiche industriali, perché di ciò si tratta, adeguate alla sfide che ci aspettano sul fronte del clima. E senza un approccio organico sotto al profilo industriale la questione climatica è persa in partenza.

Un ragionamento che andrebbe fatto anche in Europa, e quindi in Italia, ma che trova poco spazio nelle nuove direttive al vaglio a Bruxelles che si limitano a fotografare la, per ora lieve, tendenza alle rinnovabili, senza fare da stimolo robusto, come sarebbe necessario, alle fonti energetiche a basse emissioni.

 

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