Costi, emissioni, vantaggi e limiti delle stufe a bioetanolo

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Sono sempre più diffusi stufe, caminetti e accessori decorativi con fiamma alimentata dal bioetanolo. Una scelta rapida e pratica per integrare il proprio riscaldamento, ma usato senza canna fumaria potrebbe essere una scelta non molto salutare. Quali i costi per riscaldarsi con questo combustibile?

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In questo inverno di gelo profondo come resistere alla possibilità di aggiungere immediatamente in casa una fonte di calore “sostenibile”, cioè non dipendente da combustibili fossili, senza lavori di idraulica o muratura,  a costo relativamente basso e spesso con un risultato esteticamente tanto piacevole da aggiungere la nuova fonte non in un qualche angolo poco visibile della casa, ma nel bel mezzo del “salotto buono”?

Parliamo del sempre più diffuso uso di stufe, caminetti e accessori decorativi con fiamma alimentata dal “bioetanolo”, un alcool identico a quello del vino, ma ricavato dalla fermentazione dello zucchero di barbabietole o canna da zucchero, che viene venduto come un combustibile talmente pulito, da poter essere bruciato all’interno delle case, senza necessità di convogliare all’esterno i suoi fumi.

Se aggiungiamo che anche l’acquisto di questi prodotti rientra nelle detrazioni fiscali del 50% per le ristrutturazioni edilizie, ecco che questa alternativa sembra perfetta, se non fosse che non mancano le perplessità riguardo al suo impiego.

Utilizzo delle stufe a bioetanolo

Perplessità che, per ora, non hanno però scalfito il crescente successo del bioetanolo.

«Abbiamo cominciato a vendere oggetti d’arredo con fiamma a bioetanolo intorno al 2010», ci spiega Emiliano Piotto, della Tecnoairsystem, uno dei maggiori produttori italiani di bruciatori e stufe a bioetanolo.

«In un primo tempo si trattava di piccole fiamme contenute all’interno di cornici di vetro da sistemare sui tavoli, o camini da appendere alla parete, che avevano una funzione soprattutto di arredamento. Ma ora produciamo anche vere e proprie stufe a bioetanolo, di potenza fino a 3,2 kW, cioè sufficienti per scaldare una stanza di 70 metri cubi. La richiesta è alta e continuamente in crescita», continua Piotto.

Sono in realtà ormai diversi i produttori italiani di stufe che si sono “gettati” sul bioetanolo, come ad esempio Fiammapulita, che ne ha in listino diversi tipi, fino a 3,5 kW.

Del resto la tecnologia di questi prodotti non potrebbe essere più semplice: un serbatoio, uno “stoppino” (oggi high tech, in schiuma ceramica), un sistema di accensione della fiamma e, talvolta, un ventilatore per distribuire il calore.

E la semplicità porta a prezzi relativamente contenuti: le stufe si aggirano tra i 200 e i 500 euro a secondo della potenza, e il bioetanolo attorno ai 2 euro al litro, con una autonomia, nelle stufe di maggiore potenza, di circa 3 ore per litro.

Ma la principale ragioni del successo di tutti questi prodotti è che non hanno bisogno di una canna fumaria, potendo rilasciare i fumi della combustione direttamente all’interno della stanza.

«Questa caratteristica non è certo una novità – ricorda Piotto – da decenni esistono stufe catalitiche a gas liquido, che fanno esattamente la stessa cosa. Però, visto che da qualche tempo le bombole di gas nei condomini sono spesso vietate, caminetti o stufe a bioetanolo in molti casi possono costituire l’unica alternativa per integrare velocemente il riscaldamento».

Si tratta insomma di una possibilità molto comoda per chi vuole aggiungere del riscaldamento ulteriore alla propria abitazione o magari riscaldare ambienti sprovvisti di riscaldamento, e non può o non vuole usare sistemi di riscaldamento elettrici.

La combustione di bioetanolo negli ambienti chiusi è possibile perché, come per gli idrocarburi che costituiscono il Gpl, anche questo alcol ha una molecola molto piccola, che se il combustibile è di ottima qualità e la miscelazione con l’ossigeno ottimale, bruciando produce solo acqua e CO2.

«La produzione di acqua potrebbe costituire un problema, in quanto fa aumentare l’umidità nella stanza, quindi, per esempio, favorire la crescita di muffe. Ma devo dire che mentre nel caso del Gpl catalitico ho sentito lamentele a tale riguardo, per le stufe a bioetanolo, almeno finora, non abbiamo avuto segnalazioni di disagi legati all’umidità prodotta dalla combustione», dice Piotto

Le emissioni

Ma sicuramente non è il contenuto di umidità nei fumi del bioetanolo a preoccupare chi studia le combustioni e che non è poi così entusiasta all’idea di bruciare questo alcol in ambienti chiusi.

Una ricerca del 2014 fatta dal tedesco Fraunhofer Institute per le ricerche sul legno, WKI, su vari tipi di bruciatori e stufe a bioetanolo, fatte funzionare all’interno di un contenitore di 48 metri cubi, ha rivelato, in quantità diverse a secondo dei vari modelli testati, una presenza in aria sopra i limiti di sicurezza di monossido di carbonio, ossidi di azoto, formaldeide, benzene e particolato.

Ma non era una combustione pulita?

«Sì, in teoria, nelle condizioni ideali, la combustione dell’etanolo produce solo acqua e biossido di carbonio – ci spiega il professore di ingegneria chimica Tiziano Faravelli, del politecnico di Milano – ma nelle condizioni reali si possono non raggiungere i livelli necessari di temperatura e rimescolamento aria-combustibile, così che particelle di carbonio restino non combuste, creando particolato, o combuste solo parzialmente, con la formazione del tossico monossido di carbonio, o che parti della molecola dell’alcol si ricombinino fra loro, producendo composti come la formaldeide. Insomma, un mix di sostanze tossiche che ci preoccupa quando lo incontriamo nelle strade cittadine e che non si capisce perché lo dovremmo sopportare nelle nostre case».

Le emissioni peggiori, come hanno dimostrato test condotti allo stesso Politecnico di Milano, sembrano averle i bruciatori a bioetanolo d’arredo.

«E questo perché lo bruciano a temperature più basse, così da sviluppare una decorativa fiamma giallastra, simile a quella delle candele: ma a creare il caldo colore giallo della fiamma sono proprio le particelle di carbonio non completamente bruciate», dice il professore.

In realtà i produttori di stufe mettono in guardia contro il far funzionare i loro prodotti in ambienti troppo piccoli e troppo a lungo senza cambiare aria.

«Per la nostra stufa da 3,2 kW, raccomandiamo di non usarla in ambienti sotto ai 48 metri cubi e di cambiare aria alla stanza ogni ora, sostituendo ogni volta almeno la metà del volume di aria, oppure di avere un sistema di ventilazione della stanza adeguato» dice Piotto.

Una saggia misura precauzionale, ma viene però da chiedersi che senso abbia riscaldare una stanza con una stufa che ti costringe ogni ora a cambiare l’aria, raffreddando di nuovo gli ambienti.

Quindi, riassumendo, il bioetanolo può essere una scelta rapida, pratica e relativamente economica per integrare il proprio riscaldamento, ma usato senza canna fumaria non ci illudiamo che, nonostante il prefisso rassicurante “bio”, sia una scelta molto salutare: inevitabilmente la fiamma del bioetanolo farà abbassare il tasso di ossigeno dell’aria, sostituendolo con biossido di carbonio (che non è tossico, ma se c’e n’è troppo in aria può provocare mal di testa e sopore), e, quasi inevitabilmente, anche qualche molecola non proprio benigna.

Meglio non abusare quindi di questa forma di riscaldamento e seguire, per quanto possibile, le indicazioni per il ricambio dell’aria.

Ma visto che comunque l’etanolo ha l’indubbio vantaggio di essere prodotto in modo sostenibile (soprattutto se proveniente da colture tropicali ad alta resa, come la canna a zucchero e, meglio ancora, dai nuovi processi che ricavano l’alcol dalla cellulosa) e provoca molto meno inquinamento aereo della legna o del pellet da legna bruciati in apparecchi di bassa qualità, non potrebbe questo combustibile costituire una valida alternativa per alimentare in modo “verde” caldaie dotate di canna fumaria?

Quanto costa riscaldare con il bioetanolo?

«Premesso che secondo me il miglior combustibile da riscaldamento resta il metano – ci dice Faravelli – in attesa che si affermi il biometano da fermentazione anerobica, direi che il bioetanolo potrebbe costituire un buon combustibile da riscaldamento sostenibile. In effetti, soprattutto nelle aree urbane la legna o il pellet di legna possono non essere tollerabili, per le emissioni di particolato e altri inquinanti che producono. Quindi usare alcol etilico al loro posto sarebbe certo un passo avanti per quanto riguarda la salute dell’aria. Attenzione, però, non sarebbe una scelta molto economica: a parità di massa organica di partenza, si ottiene molto meno bioetanolo che legna da ardere, e questo minore rendimento incide fortemente sul prezzo».

E in effetti i conti sono presto fatti: il potere calorifico dell’etanolo è di circa 5100 kCal/litro e quello del pellet circa 4500/kg, ma il pellet costa 0,25 €/kg, contro i 2 €/litro del bioetanolo.  

Per scaldare in inverno un appartamento di 100 mq servono circa 12 milioni di chilocalorie, quindi circa 2350 litri di bioetanolo, con 4.700 euro di spesa, o 2700 chili di pellet, a un costo di circa 700 euro. Per confronto il riscaldamento stagionale dello stesso teorico appartamento usando metano verrebbe sui 1.400 euro, e sui 3.300 euro usando gasolio.

Non c’è insomma partita dal punto di vista economico fra i due “campioni verdi” e, a meno di rivoluzioni nella tecnologie di produzione del bioetanolo, con relativo crollo dei prezzi, o di future pesanti limitazioni dell’uso del pellet, che costringessero i verdi “puri e duri” sostituti sostenibili per le loro caldaie, l’alcol dello zucchero continuerà a fare solo da riscaldatore di complemento, una stanza per volta, e cambiando spesso l’aria.

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