Se Trump diventasse presidente degli Stati Uniti

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Quali effetti potrebbe avere sulla politica energetica Usa e sugli accordi per la lotta ai cambiamenti climatici l'elezione di Donald Trump? Come minimo farebbe rallentare l'azione per la decarbonizzazione dell'economia. Come dovrebbe muoversi fin da subito la comunità mondiale?

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Non diversamente da quelle individuali, le rimozioni collettive di prospettive sgradite ci fanno trovare impreparati, quando l’averle esorcizzate non impedisce che si avverino. Per questo mi preoccupa che non si discuta di cosa accadrebbe al post-COP21, se Trump diventasse il 45° presidente degli Stati Uniti. 

A preoccupare nel suo “America-First Energy Plan” non sono le bufale, che pure non mancano, come l’obiettivo di aumentare la produzione di shale gas e nel contempo di restituire all’industria del carbone il suo “ruolo glorioso”, dimenticando che è stata proprio la caduta del prezzo del gas, dovuta al boom dello shale, a mettere in crisi il settore carbonifero e non una presunta “job-destroying” politica di Obama.

Preoccupa certamente l’inversione di rotta nella politica climatica interna, con la cancellazione immediata di tutte le restrizioni all’uso del fracking per l’estrazione di shale gas, alle perforazioni off-shore, alla produzione di gas e petrolio nelle aree di proprietà federale. Tuttavia, si tratta di provvedimenti che devono passare al vaglio del Congresso, il cui esito non è quindi né scontato, né immediato.

Molto di più preoccupa invece l’intenzione di abrogare tutti gli ordini esecutivi di Obama che hanno posto limiti all’utilizzo di combustibili fossili e alle emissioni delle centrali elettriche, e di revocare l’adesione americana all’accordo raggiunto a Parigi, in quanto si tratta di decisioni che Trump, se eletto, potrà prendere in totale autonomia.

Senza l’intesa raggiunta in via preliminare tra Cina e USA, difficilmente si sarebbe arrivati a Parigi con le “Intended Nationally Determined Contributions”, redatte dal 92% degli stati presenti, i quali a loro volta rappresentavano il 91% delle emissioni climalteranti globali, né la COP 21 si sarebbe conclusa con un accordo finale che, pur non contenendo alcun vincolo impegnativo per i firmatari, fissa obiettivi condivisi (tra cui il limite di 2 °C alla sovratemperatura globale, con l’auspicio di scendere verso 1,5).

Quali effetti potrebbero avere la cancellazione delle, peraltro insufficienti, normative introdotte negli ultimi anni da Obama, e l’abbandono di qualsiasi futuro impegno sul clima che, oltre tutto, nelle intenzioni di Trump, dovrebbero essere accompagnati dalla cancellazione di tutti i finanziamenti americani ai programmi climatici delle Nazioni Unite?

Dopo la Cina, gli Stati Uniti sono il principale emettitore di gas serra. Se si tirano fuori, quanti altri paesi saranno tentati di seguirne l’esempio? È vero che prima e dopo Parigi una parte non piccola del mondo finanziario e delle grandi imprese ha dimostrato di essere più avanti dei governi nella consapevolezza dei rischi di un cambiamento climatico irreversibile, per cui la defezione americana non riuscirebbe a bloccare il percorso avviato. Però lo rallenterebbe, e in un mondo impegnato in una corsa contro il tempo (secondo le ultime previsioni della Nasa, a fine anno potremmo arrivare a 1,3 °C di sovratemperatura) questo ritardo potrebbe rivelarsi esiziale.

Di qui l’urgenza di una mobilitazione su larga scala, per chiedere agli altri stati sottoscrittori dell’accordo di Parigi di prendere una posizione esplicita contro le politiche energetico-climatiche proposte da Trump: riconferma dell’accordo sottoscritto a Parigi e disponibilità a esaminare provvedimenti aggiuntivi.

Anche se non mi nascondo la difficoltà di raggiungere un consenso sufficiente ampio su questo punto, perché non ventilare l’ipotesi di una carbon intensity tax sull’importazione di prodotti americani?

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