Il Deposito Unico Nazionale e la maledizione del nucleare italiano

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Sulla gestione dei rifiuti radioattivi l'Italia è in una situazione di impasse, fatta di misteri e ritardi, depositi mancanti e mappe disperse. Un viaggio nel mondo delle scorie nucleari del Bel Paese che spinge nuovamente a ringraziare i due referendum del passato per aver fermato sul nascere una assurda avventura atomica.

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Quali sono le potenze nucleari nel mondo? Usa, Russia, Gran Bretagna, Francia, India, Pakistan, Israele, Nord Corea e Statte, in provincia di Taranto. No, non ho bevuto: Statte è probabilmente l’unico luogo al mondo in cui l’assessore comunale all’ecologia sia responsabile di un deposito di rifiuti radioattivi, fra le quali una ventina di metri cubi ad alta attività, con i quali il comune pugliese, volesse far guerra all’Italia, potrebbe costruire “bombe sporche” e ricattare Roma. Scherziamo, certo, ma la situazione di Statte è particolarmente emblematica di quella dei rifiuti nucleari in Italia.

Il Cemerad e i rifiuti nucleari italiani

Quel comune ospita infatti il Cemerad, un deposito privato con migliaia di fusti colmi di scorie radioattive industriali e ospedaliere, abbandonato dal 2000, lasciato in “custodia” al Comune e ormai tanto fatiscente e pericoloso da costarci una decina di milioni di euro per la sua messa in sicurezza: operazione sostanzialmente inutile visto che fra circa 10 anni, quando, in teoria, dovrebbe essere disponibile un luogo sicuro e centralizzato dove spostare quei rifiuti, il Cemerad dovrà comunque essere sgomberato.

E si tratta solo di una piccola parte nel mare magnum dei rifiuti nucleari italiani. Questi sono costituiti da circa 75.000 metri cubi di rifiuti ad attività media o bassa (che scenderà cioè a livelli non pericolosi in circa 300 anni), costituiti da materiali molto vari, dalle sonde per le radiografie metallurgiche ai radioisotopi per la cura del cancro, da materiali per la ricerca fino a parti di centrali nucleari, e da circa 15.000 metri cubi di materiali ad alta attività e lunga vita, più che altro frutto dell’attività delle centrali nucleari del passato, che invece richiederanno decine di migliaia di anni per diventare innocui.

Scorie sparse e rischi di contaminazione

Questo materiale, con l’esclusione di parte delle scorie ad alta attività spedite per il ritrattamento in Francia e Gran Bretagna, ma che comunque cominceranno a tornare in patria dal 2025, è al momento sparpagliato in una ventina di luoghi d’Italia, fra vecchie centrali nucleari, centri di ricerca, ex impianti industriali e depositi come quello di Statte o dell’Enea di Frascati, inadeguati a ospitare rifiuti così pericolosi.

Noto è il caso dell’Eurex di Saluggia, ex centro di preparazione di combustibile nucleare, che conteneva bidoni e piscine piene di pericolose scorie atomiche in forma liquida, oggi spostate in più sicuri serbatoi in attesa di essere solidificati, che nel 2000 rischiarono di essere portate via da una piena della Dora Baltea e contaminare così buona parte della pianura padana.

Il programma mancante e il rischio infrazione UE

Da anni l’Europa ci chiede di provvedere a questa situazione presentando un programma nazionale di gestione del combustibile nucleare irraggiato e dei rifiuti radioattivi, la cui prima scadenza era il 2014, poi prorogata ad agosto 2015, poi al 13 gennaio 2016. Ma tutti gli ultimatum sono scaduti, il Programma continua a essere disperso negli uffici del Ministero dello Sviluppo Economico (MiSE) e l’Italia adesso rischia una procedura di infrazione e relative sanzioni.

Il cuore di quel programma è però noto: si tratta del famoso Deposito unico nazionale, una struttura in cui si dovrebbero concentrare tutti i rifiuti ad alta e media attività, in via definitiva, e, temporaneamente, quelli ad alta attività, fino a che, cioè, non si realizzi un deposito sotterraneo geologico, dove seppellirli definitivamente.

«Un deposito unico è la soluzione più economica e razionale», ci spiega il geologo Fabio Chiaravalli, direttore del Deposito Nazionale e Parco tecnologico in Sogin, la società pubblica che deve smantellare i siti nucleari italiani e gestire tutti i rifiuti radioattivi «costa molto meno ed è molto più sicuro che avere più depositi sparsi sul territorio. Occorre precisare che si sta parlando di un deposito definitivo per le scorie a bassa e media attività: questo vuol dire che è necessario trovare un territorio idoneo ad ospitare in sicurezza i rifiuti radioattivi per i 300 anni necessari perché la loro radioattività, e pericolosità, decadano opportunamente».

La mappa perduta e le aree possibili

E qui, dopo il Programma, abbiamo il secondo “desaparecido” della gestione dei rifiuti radioattivi italiani: la mappa delle aree potenzialmente utilizzabili a questo scopo. E’ stata terminata dalla Sogin a primavera, poi validata dall’Ispra, l’Istituto che si occupa della sicurezza nucleare e radioprotezione in Italia, e, infine, inviata al MiSE e al Ministero dell’Ambiente per l’approvazione finale e la pubblicazione, che doveva avvenire a fine agosto. E da allora se ne sono perse le tracce.

La stringata versione ufficiale, dataci dall’ufficio stampa del MiSE, è che stanno ancora “valutando”. Ma non si sa bene cosa ci sia ancora da valutare, visto che i 15 criteri di esclusione pensati dall’Ispra (fra cui assenza di sismicità e rischio idrogeologico rilevanti, lontananza da fiumi, falde, centri abitati, zone elevate, industrie, aree protette e importanti vie di comunicazione) non è che lascino molto territorio disponibile: in pratica restano solo interno della Sardegna, Maremma, Murge, alcune aree di Piemonte, Lombardia, Sicilia, Trentino e poco altro.

Un problema politico?

Il sospetto malizioso è che la valutazione riguardi più che altro quando e come presentare la mappa, in modo che faccia perdere meno consensi possibile al Governo. Già, perché indicare le aree in cui il deposito potrà sorgere, non sarà probabilmente accolto con cori di giubilo: si teme piuttosto una valanga di ‘Comitati del No’, pronti a dare battaglia

Per prevenire tutto ciò, ci spiegano da Sogin, ci sarà una campagna di informazione capillare presso tutte le amministrazioni pubbliche interessate. Dopo di che le indagini successive sul territorio avverranno solo nei comuni che avranno manifestato interesse. Infine, solo fra quelli che si saranno fatti avanti per ospitare la struttura, verrà scelto il sito finale. Sarà una procedura per la scelta condivisa così complessa da richiedere almeno cinque anni, più dei quattro previsti per la costruzione.

Ma che vantaggi avrà ospitare il Deposito Nazionale per il luogo selezionato? «Oltre a una notevole ricaduta economica diretta, come già oggi avviene per le amministrazioni che ospitano impianti nucleari – spiega Chiaravalli – sono previsti circa 1500 addetti per i quattro anni di costruzione e 700 impieghi durante l’esercizio del Deposito e del Parco Tecnologico.»

Non è detto si debba fare in Italia

Nel caso nessun “volontario” si presentasse, saranno Governo e regioni interessate a dover scegliere di autorità il luogo. E, forse, questa possibilità infausta, sarà resa più probabile dal fatto che il sito ospiterà, anche se solo temporaneamente, le scorie ad alta attività.

E non è detto che questo deposito geologico lo si debba fare in Italia: nel caso di nazioni, come la nostra, che non producono più grandi quantitativi di rifiuti radioattivi ad alta attività, è possibile unirsi con altre nazioni e sviluppare un unico deposito geologico comune in cui far confluire le proprie scorie. In attesa di questa soluzione definitiva, però, quelle che abbiamo sul nostro territorio debbono essere comunque custodite nella massima sicurezza.

I ritardi e il conto del nucleare

Purtroppo però neanche il misterioso ritardo nell’iter per il Deposito nazionale esaurisce i guai dello smaltimento di rifiuti nucleari in Italia. Come rivela il rapporto dedicato al tema (qui in pdf) della Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti, la stessa Sogin, che già ha i suoi bei problemi per i contrasti nella sua dirigenza, con le dimissioni annunciate e poi ritirate del suo AD Riccardo Casale, ha accumulato ritardi fra due e sei anni nello smantellamento delle vecchie centrali nucleari e nella messa in sicurezza di rifiuti pericolosi come quelli dell’Eurex.

Ritardi che costeranno cari agli italiani che pagano questi interventi con una addizionale in bolletta elettrica: fra 2006 e nel 2013 la stima del costo per lo smantellamento complessivo dei siti nucleari e la messa in sicurezza dei rifiuti è già passata da 4,35 a 6,7 miliardi di euro (di cui 2,5 per Deposito unico e parco tecnologico), e ogni anno di ritardo nello smantellamento aggiunge 8-10 milioni di euro per ogni sito.

La maledizione dell’agenzia fantasma

Ma non basta ancora, il controllo sulla gestione dei rifiuti nucleari e sulla radioattività ambientale è stato finora svolto, con buoni risultati, dall’Ispra. Ma dal 2009 questa competenza gli è stata tolta, per affidarla a una fantomatica Agenzia specializzata, che non è mai nata. L’Ispra opera da allora in modalità temporanea, e, ovviamente, non ha più investito nel settore, perdendo via via personale e relative competenze, difficili da rimpiazzare.

Invece di prendere atto del fallimento e di ridare le competenze all’Ispra, a inizio 2014 il Governo ha creato per decreto un altro ente apposito, l’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione, Isin. Ma la maledizione dei rifiuti nucleari ha colpito ancora: da allora l’Isin è rimasto solo sulla carta, in quanto il direttore designato, il segretario del Ministero dell’Ambiente, Antonio Agostini, non è stato confermato per le forti critiche alla sua mancanza di competenza e per essere implicato in un’inchiesta giudiziaria sulla gestione dei fondi comunitari.

A questo punto si configura un circolo vizioso paralizzante: il Programma nazionale per la gestione dei rifiuti radioattivi è incentrato sia sull’Isin che sul Deposito unico, di cui si dovrebbe specificare almeno la data di entrata in funzione. Senza l’operatività dell’Isin non si può procedere in modo credibile né con la presentazione del Programma, né con il prosieguo dell’iter per il Deposito unico, a cui dovrebbe contribuire anche l’Isin stesso.

Situazione da mani nei capelli

Da più di un anno però la politica sembra incapace di spezzare questo circolo, con il risultato che nel settore della gestione dei rifiuti nucleari in Italia, la situazione resta da mani nei capelli. Migliaia di metri cubi di materiale pericoloso, infatti, sono conservati in depositi ”temporanei” inadatti, se non insicuri, e sempre più stipati, via via che si aggiungono ogni anno centinaia di metri cubi di rifiuti freschi; lo smantellamento delle vecchie centrali, per difficoltà tecniche e operative di Sogin, accumula ritardi e costi crescenti; il Deposito unico nazionale pare essersi già impantanato alle prime fasi del lungo iter della sua realizzazione; il programma di smaltimento di rifiuti radioattivi che l’Europa ci chiede da anni, non riusciamo a farlo uscire dai cassetti dei ministeri; e infine l’unica cosa che funzionava bene nel settore, l’Ispra, è stata esautorata e mai rimpiazzata.

Veramente un bel panorama. A questo punto viene da chiedersi cosa sarebbe successo se l’Italia negli anni ’80 fosse andata avanti con il suo programma nucleare, e avesse ora da gestire anche montagne di rifiuti ad alta pericolosità…

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