Accordo sul clima, un disastro e un successo insperato

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Il "Paris Outcome", il documento finale della COP21, è un disastro in confronto a quello che avrebbe dovuto essere e, rispetto a come poteva essere, viceversa, un risultato insperato. Questa in sintesi l'opinione a caldo di Lorenzo Ciccarese, con cui iniziamo a valutare alcuni aspetti dell'accordo.

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Verso sera, con un giorno di ritardo rispetto alla chiusura ufficiale, la COP21 di Parigi ha trovato un accordo, in qualche modo storico, per contrastare la minaccia del cambiamento climatico. L’accordo, denominato Paris Outcome (vedi CoP21, c’è l’accordo finale. Il testo e i punti principali), entrerà in vigore nel 2020 quando decadrà il Protocollo di Kyoto. Il ministro degli esteri francese e presidente della COP21, Laurent Fabius, presentando la bozza finale ai ministri e ai capi di stato e di governo dei 195 Paesi, l’aveva definito “giusto, sostenibile, dinamico, equilibrato e legalmente vincolante”.

È davvero così? Sarà sufficiente rovesciare la tendenza del cambiamento? O servirà solo a rendere un po’ più lenta la catastrofe climatica? 

Il Paris Outcome è un disastro in confronto a quello che avrebbe dovuto essere. In confronto a come poteva essere, viceversa, è un risultato insperato, un vero miracolo. Va dato merito alla presidenza francese che è riuscita in questo difficile tentativo di accomodare le richieste e le aspettative della Cina e della Russia e dei principali Paesi produttori di petrolio. La svolta è stata l’uscita allo scoperto dell’high ambition coalition, un gruppo negoziale di almeno 100 Paesi, tenuto in segreto per sei mesi, comprendente Unione Europea, molti  Paesi in via di sviluppo e Paesi meno sviluppati, gli USA, il Canada, l’Australia, ostinati a difendere l’integrità ambientale dell’accordo.  

Ma non i principali Paesi in via di sviluppo, la Cina e l’India. Il Brasile, per anni parte del blocco dei Paesi in via di sviluppo, si è aggiunto all’high ambition coalition. Il gruppo (l’Autorità politica mondiale citata nell’Enciclica?), che ha scompaginato i tradizionali blocchi negoziali, si è coagulato intorno a quattro temi che sono stati i principali nodi del negoziato. 

Il primo (differentiation nel gergo) riguarda il rispetto del principio delle responsabilità comuni ma differenziate rispetto all’accumulo dalla rivoluzione industriale a oggi, delle emissioni di gas serra, nonché alle capacità di intervenire per ridurle. La COP doveva decidere se mantenere la differenza di impegni di riduzione tra Paesi industrializzati e non industrializzati, mantenendo il regime del Protocollo di Kyoto. 

Il secondo (ambition) riguarda il limite da porre al riscaldamento globale e alla progressiva de-carbonizzazione delle società. A Copenhagen, i Paesi avevano condiviso l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a non più di 2 °C rispetto all’era pre-industriale. Negli ultimi giorni della COP, proprio i Paesi dell’high ambition coalition avevano chiesto un chiaro riferimento a un limite a 1,5 °C, che gli scienziati ritengono possa dare maggiori garanzie di sopravvivenza alle nazioni insulari e rivierasche e a un tragitto e una scadenza temporale per la de-carbonizzazione delle società.

Altra questione: includere o no nell’accordo di Parigi un impegno per tutti i Paesi ad implementare i loro INDC dichiarati? Una questione centrale nei negoziati è stata quella di stabilire se gli INDC rappresentano un impegno vincolante o meno. Alcuni Paesi, pur puntando a rendere giuridicamente vincolanti gli INDC, protendono per un accordo che non impegni espressamente i Paesi a raggiungere i loro INDC (distinguendo in tal modo l’accordo di Parigi dal Protocollo di Kyoto).

Altro grande tema di controversia sono stati gli aiuti finanziari (finance). Con l’accordo di Copenhagen i Paesi sviluppati si erano impegnati a mobilitare 100 miliardi di dollari l’anno, entro il 2020, a favore dei Paesi in via di sviluppo per attività di lotta ai cambiamenti climatici. I Paesi in via di sviluppo puntavano sul principio di “progressione”, aiuti via via crescenti negli anni.

Infine, i requisiti minimi di trasparenza del reporting e della verifica (transparency). I Paesi in via di sviluppo hanno sempre mostrato contrarietà agli obblighi di reporting e di verifica della contabilizzazione delle emissioni e di rispetto degli impegni (che valgono invece per i Paesi sviluppati).

L’accordo di Parigi accoglie dunque l’obiettivo di “contenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto di 2 °C” rispetto ai livelli pre-industriali e di proseguire gli sforzi per limitare l’aumento della temperatura a 1,5 °C, riconoscendo che ciò ridurrebbe in modo significativo i rischi e gli impatti del cambiamento climatico.

Il testo dell’accordo non risponde alle aspettative di molti, ma era difficile ritenere che si potesse andare oltre questo impegno. È ovvio che le promesse di riduzione dei gas serra che i Paesi hanno messo sul tavolo di Parigi cadrà ben al di sotto dell’obiettivo 2 °C. Per limitare a 1,5 °C il riscaldamento c’è bisogno di profonde e rapide riduzioni delle emissioni di CO2, che passano attraverso politiche aggressive, incluso l’aumento dei prezzi dell’energia da fonti fossili, per accelerare investimenti in tecnologie pulite e per disporre di fondi a favore dell’innovazione tecnologica. 

Di sicuro l’accordo di Parigi ha riconosciuto le esortazioni della comunità scientifica ad affrontare con urgenza il cambiamento climatico. I tre elementi chiave per farlo, in qualche modo, sono nel testo dell’accordo: mantenere il riscaldamento al di sotto di due gradi; abbandonare i combustibili fossili; rivedere, ogni cinque anni, gli impegni dei Paesi di riduzione dei propri livelli di emissioni di gas-serra.

In qualche modo l’accordo riconosce che i tagli alle emissioni promessi dai paesi non sono ancora sufficienti. Tuttavia l’accordo, nel suo complesso, invia un messaggio forte a imprese, investitori e cittadini: i combustibili fossili appartengono al passato, mentre per il futuro l’energia potrà essere solo rinnovabile e pulita. Infine, l’accordo riconosce il nesso tra climate change e sicurezza alimentare e l’urgenza di affrontare la fame e la malnutrizione.  

Ora spetta alla società civile, che a Parigi non ha potuto far sentire la propria voce, esigere che i governi attuino le misure e gli obiettivi contenuti nell’accordo e incalzarli se dovessero insistere sul rinascimento del carbone, del petrolio e del gas, o ritardare il processo di de-carbonizzazione. I governi devono essere consapevoli che la protezione del clima e la trasformazione ecologica delle società sono solo possibili in cooperazione con la società civile.

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