Ogni anno nella filiera agroalimentare si buttano 178.000 TEP di energia

  • 7 Settembre 2015

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Lo spreco nella filiera agroalimentare ha un alto costo in termini di energia: in Italia, ogni anno, i consumi energetici nelle diverse fasi produttive equivalgono a quelli di 730.000 appartamenti. Ma i modi per intervenire non mancano. Un'analisi nella rivista Materia Rinnovabile.

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Lo spreco nella filiera agroalimentare ha un alto costo in termini di energia: in Italia, ogni anno, i consumi energetici nelle diverse fasi produttive equivalgono a quelli di 730.000 appartamenti di 100 metri quadrati in classe A, ovvero 178.000 TEP, tonnellate equivalenti di petrolio. Questo e altri dati relativi alla produzione agricola e al contrasto allo spreco alimentare si trovano nell’ultimo numero di Materia Rinnovabile, il magazine dell’economia circolare pubblicato da Edizioni Ambiente.

Ogni anno 1,5 milioni di tonnellate di produzione agricola primaria rimangono sul campo perché dal punto di vista economico non conviene raccoglierle o perché non soddisfano gli standard estetici richiesti (criteri riguardanti forma, dimensione, colore del prodotto). Uno spreco che equivale al 3% della produzione complessiva, anche se fortunatamente in calo: da 1,7 milioni di tonnellate nel 2009 a circa 1,5 milioni di tonnellate nel 2011.

La quantità di prodotto lasciato in campo presenta differenze significative tra le varie colture, con percentuali più elevate nel caso di ortaggi in serra (12,53%), legumi e patate (5,21%), olive (4,85%). La perdita di energia causata dagli sprechi in questa fase è pari a circa 98.000 TEP, sufficienti ad alimentare per un anno 400.000 appartamenti di 100 metri quadrati ad alta efficienza energetica.

A ciò vanno aggiunti gli sprechi dell’industria alimentare, con perdite complessive per 1,8 milioni di tonnellate: sono alti soprattutto nel settore delle bevande, in quello lattiero-caseario e nella lavorazione e conservazione di frutta e ortaggi. Complessivamente questo spreco corrisponde al 2,6% del prodotto finale e comporta dunque una perdita di energia stimabile in 80.000 TEP, equivalenti ai consumi annuali di energia termica di 330.000 appartamenti da 100 metri quadrati in classe A.

Totale: 178.000 TEP in fumo ogni anno che potrebbero essere ridotte o compensate da un lato utilizzando gli scarti derivanti dalla coltivazione per produrre bioenergie e mangimi, dall’altro investendo nella innovazione biobased a beneficio di diversi settori produttivi (farmaceutico, alimentare, chimico). Sono già molte le aziende che hanno adottato sistemi e tecnologie finalizzate al recupero degli scarti. Bucce di pomodoro, scarti dell’industria dolciaria, del pane e della lavorazione della patata, sono tutti ottimamente impiegabili, e impiegati, sia nel settore della mangimistica sia nella produzione di biogas.

Ma esistono utilizzi alternativi che permetterebbero di aumentare ulteriormente l’efficienza e di generare maggiore valore aggiunto. Per esempio, dalle bucce di patata e dai residui di amido è possibile produrre bioplastica per poi ricavare biogas dai successivi scarti. Allo stesso modo, dal residuo della torrefazione del caffè è possibile ricavare una pellicola argentea (silver skin) che – se opportunamente lavorata – può costituire fonte di preziosi elementi nutritivi, oltre che di cellulosa ed energia.

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