Studio: le riserve fossili da lasciare sotto terra

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Una ricerca su Nature dettaglia le riserve fossili alle quali, per restare entro la soglia critica dei 2°C, il mondo dovrà rinunciare, partendo dalle più costose e inquinanti. Ne esce uno scenario geopoliticamente improbabile, con Cina ed India che potrebbero usare solo il 13% delle proprie riserve di carbone e la Russia solo il 41% del suo gas.

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È finito il tempo dei giochetti sul clima, si comincia a fare sul serio. Questo è il pensiero che viene leggendo la ricerca pubblicata su Nature il 7 gennaio (allegato in basso), che dettaglia a quale (enorme) parte di riserve di combustibili fossili il mondo dovrà rinunciare se vuole veramente contenere le temperature terrestri sotto a quel +2°C sui livelli preindustriali, che i climatologi hanno indicato alla politica come limite da non superare per evitare effetti devastanti.

L’idea di calcolare quante riserve di combustibili fossili debbano restare, con le loro potenziali emissioni di CO2, sottoterra, non è nuova, ma per la prima volta Christophe McGlade e Paul Ekins, dell’Institute for Sustainable Resources, dell’University College di Londra, hanno illustrato in dettaglio quanto gas, petrolio e carbone si dovrà rinunciare a estrarre nelle varie regioni del mondo. Con risultati decisamente scioccanti, per l’entità dei tagli che dovrebbero affrontare le nazioni che hanno quelle risorse come principale o unica fonte di entrate.

McGlade ed Ekins hanno utilizzato un modello matematico che mette in relazione le emissioni con l’aumento delle temperature medie terrestri, calcolando che per mantenere entro il 2050 la temperatura terrestre sotto ai +2°C, con almeno un 50% di possibilità, bisognerà non aggiungere nei prossimi 40 anni all’aria più di 1100 miliardi di tonnellate di CO2. Il problema è che, per rispettare quel limite, 2/3 delle riserve conosciute (intese come sottoinsieme economicamente sfruttabile delle risorse fossili totali) su cui contano per fare cassa compagnie private e Stati, non dovranno essere estratte.

Ma, hanno riflettuto i due ricercatori, per massimizzare l’uso di questi combustibili, la quantità da lasciare sotto terra deve essere calcolata sulle emissioni di CO2 associate ad ogni tipo di risorsa, penalizzando non solo quelle a più alte emissioni per unità di energia (come il carbone), ma anche più difficili da estrarre e raffinare, ancora da sviluppare o lontane dalle aree di produzione (fattori che aumentano la CO2 associata e che sono sintetizzati dal costo di estrazione). Questo criterio di logica scientifica, non certo politica, ha prodotto un quadro che, temiamo, sarà ben difficile da far digerire nel mondo reale.

Scorrendo le tabelle prodotte dai due ricercatori, per esempio, si scopre che solo il 12% del carbone mondiale potrà ancora essere bruciato, con la Cina ed India che potranno usare solo il 13% delle proprie riserve, l’EU l’11%, l’Africa il 10%, gli Usa il 5% e la Russia appena il 3%.

Ma è nel caso del petrolio, di cui il 35% delle riserve mondali dovrà restare nei giacimenti, che la suddivisione dei sacrifici “impazzisce”: gli Usa qui sono sfacciatamente facilitati dall’avere riserve a basso costo, poste vicine alle raffinerie e ai consumatori, potendo così sfruttare il 91% del loro totale, contro l’81% della Russia, il 74% dell’Africa, il 62% del Medio Oriente (che però, avendo le riserve più grandi, contribuirà da solo alla metà di quelle lasciate sotto terra), il 58% del Sud America (gli enormi giacimenti di olio pesante venezuelani, diventeranno off limits) e solo il 25% canadese (il loro bitume sarà quasi inutilizzabile).

Simile il caso del gas, che dovrà restare sotto terra globalmente per il 52%, ma gli Usa potranno usare ben il 94% delle proprie riserve, contro il 68% dell’Africa, il 41% della Russia (che di gas vive…) e appena il 39% del Medio Oriente (che, di nuovo, per l’entità delle risorse, sarà il più penalizzato in assoluto).

Per indorare un po’ la pillola i due ricercatori hanno anche sviluppato uno scenario con l’ipotesi che dal 2025 si utilizzino largamente sistemi di cattura e stoccaggio della CO2 applicati alle centrali elettriche, che permettono di usare più gas e carbone: ma il risultato cambia poco, il 49% del primo e l’82% del secondo non potranno comunque essere usati.

Come corollario a tutto questo, la ricerca esclude tassativamente lo sviluppo di shale gas/oil al di là delle situazioni dove sia particolarmente conveniente (cioè, in pratica, quasi solo negli Usa) , e decreta come insensato continuare a spendere fiumi di denaro per cercare nuovi giacimenti, visto che già quelli esistenti non potranno essere sfruttati appieno. In particolare, il petrolio e gas artici, per gli altissimi costi, economici e di emissioni, di sfruttamento dovrebbero restare intatti.

«I politici devono capire che il loro istinto di sfruttare le risorse fossili delle loro nazioni, è del tutto incompatibile con l’impegno a restare sotto i +2°C» ha scritto Mc Glade. Ed Ekins ha ribadito «Le compagnie energetiche hanno speso nel 2013 oltre 670 miliardi per ricercare e sviluppare nuove risorse. Ma è con il limite dei 2°C queste nuove scoperte non potranno entrare in produzione. Invito quindi chi investe in queste società a riflettere sul fatto che questi investimenti sono sempre più a rischio, e che magari sarebbe meglio deviarli verso fonti a basse emissioni di CO2», un’idea che in effetti sta facendosi già strada.

Lo scenario dei due ricercatori è realmente applicabile? Il loro studio su Nature è certo una sana doccia di realismo, che fa toccare con mano le enormi difficoltà che ci attendono nel disintossicarci dalla dipendenza da combustibili fossili, dopo tanti anni di semplificazioni, slogan e retorica. Ma se si usasse il criterio di ripartizione da loro ideato fallirebbero intere nazioni, che su risorse ora indicate come quasi inutilizzabili e su enormi capitali spesi in ricerca, hanno fondato il proprio futuro, trascinando nel baratro l’intera economia mondiale. A meno, certo, di non affiancarlo a compensazioni economiche fra chi può o non può estrarre carbonio fossile, o tecnologiche, per esempio sostituendo nei paesi che devono rinunciare ai loro giacimenti, la produzione di combustibili fossili con quella di combustibili di sintesi realizzati con fonti a bassa emissione di CO2, sovvenzionati da chi può ancora produrre combustibili fossili.

Senza queste compensazioni un accordo fondato su basi così sbilanciate non avrebbe probabilmente alcuna chance di concretizzarsi, mentre cercare di imporlo a forza, potrebbe addirittura portare a conflitti armati. Comunque sia, la prossima conferenza Onu sul clima di Parigi del dicembre 2015, se, come si dice, sarà (dopo 20 anni di tentennamenti, negazionismi e ritardi) quella della svolta, avrà un compito di proibitiva difficoltà: conciliare la necessità di limitare drasticamente le emissioni, con quella di ripartire in modo equo i sacrifici, evitando un crollo economico globale. Vedremo se ne verrà fuori un capolavoro di accordo, che salverà clima ed economia, o, forse più probabilmente, un “compromessicchio” al ribasso, in cui il clima futuro sarà di nuovo sacrificato per non intaccare lo status quo energetico.

Lo studio: “The geographical distribution of fossil fuels unused when limiting global warming to 2°C”, Christophe McGlade & Paul Ekins (pdf)

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