Fotovoltaico: combattere il dumping tassando la CO2 contenuta nei moduli?

Uno studio sul ciclo di vita dei moduli fotovoltaici mostra che, a causa delle emissioni implicite nel processo produttivo, i prodotti cinesi hanno un'efficacia dimezzata in termni di emissioni rispetto a quelli made in Europe. E se per proteggere l'industria del FV europea invece che a dazi anti-dumping si ricorresse alla tassazione ambientale?

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Nella prima fase dell’installazione massiccia di pannelli fotovoltaici in Europa, si è assistito all’invasione dei pannelli cinesi che, venduti a costi molto più bassi dei nostri, è stata causa non ultima della quasi distruzione dell’industria europea del FV. L’UE ha reagito, imponendo dazi e prezzi minimi, solo a metà 2013, a quello che si configurava come un vero e proprio dumping, cioè una vendita a prezzi inferiori al minimo necessario per ottenere un profitto, portata avanti al solo scopo di distruggere la concorrenza. Che di dumping si trattasse lo rivela il chiudersi della forbice fra i prezzi dei pannelli cinesi e quelli tedeschi, passata dai 250 dollari al kW del 2011 ai 15 dell’aprile 2014, avvenuta non solo per i progressi dei produttori europei, ma soprattutto perché quelli cinesi, dominando ormai il mercato, hanno riportato i loro listini a prezzi più ragionevoli in tutto il mondo.

Sulle ferite inferte all’industria europea dei pannelli FV, arrivano dolorose come sale le conclusioni di uno studio pubblicato sulla rivista Solar Energy (Domestic and overseas manufacturing scenarios of silicon-based photovoltaics: Life cycle energy and environmental comparative analysis): i moduli made in China sono anche molto meno efficaci nella lotta al global warming dei prodotti europei. Gli autori della ricerca, Fengqi You, della Northwestern University, e Seth Darling, degli Argonne National Laboratory (Us Energy Department), hanno compiuto un’analisi energetica e delle emissioni di CO2 lungo il ciclo di vita di moduli al silicio mono cristallini, multi cristallini e amorfi, europei e cinesi, per valutare quale di questi recuperi prima, con la propria produzione energetica, l’energia impiegata per costruirli (Energy Pay Back Time, EPBT), e quale dei due emetta meno CO2 durante l’intera vita: dall’estrazione e raffinazione dei materiali grezzi, fino al riciclo del pannelli, dopo 25 anni di servizio.

L’ipotesi di lavoro è che i pannelli vengano tutti installati in un paese del sud Europa, con 1.700 kWh annui/mq di energia solare. Dei tre tipi di pannelli, quelli con EPBT più lungo sono risultati i monocristallini, mentre i più “sostenibili” sono quelli con silicio amorfo, che compensano la loro minore efficienza con la molta minore energia richiesta per fabbricarli, essendo la raffinazione e cristallizzazione del silicio la fase che, di gran lunga, ne richiede di più. I multi cristallini, sono a metà strada fra i due.

A parità di tecnologia, si potrebbe pensare che l’energia contenuta nei pannelli e le relative emissioni, siano più o meno gli stessi sia che vengano fatti in Cina, che da noi. Ma non è affatto così. L’EPBT dei tre tipi di moduli, quando costruiti in Europa, risultano essere rispettivamente 1,9, 1,6 e 1,4 anni, per monocristallino, multi cristallino e amorfo. Ma le stesse tipologie di moduli se made in China hanno un EPBT di 2,4, 2,3 e 1,8, rispettivamente.

L’EROI, cioè quante volte più energia una fonte produca nella sua vita, rispetto a quella usata per costruirla e farla funzionare (aggiustato dagli autori, considerando che il FV produce solo elettricità, mentre per costruirlo si usa anche calore), è 16,1, 19,1 e 22 in Europa, per monocristallino, multi cristallino e amorfo, e 12,6, 12,9 e 16,9 volte in Cina. Stesso discorso per le emissioni di CO2, calcolate dividendo le emissioni dei gas serra prodotti nel ciclo di vita, per l’elettricità ottenuta nello stesso periodo: 37,3, 31,8 e 28,5 gr CO2eq/kWh nel caso europeo 72,2, 69,2, and 54,3 gr CO2eq/kWh per quello cinese (per confronto, 1 kWh elettrico da carbone produce circa 1000 gr di CO2).

«La ragione principale di queste grandi differenze è che in Europa gli standard ambientali e di uso efficiente dell’energia sono molto più stretti di quelli cinesi, con il risultato che nel paese asiatico, a parità di prodotto, si sprecano molti più materiali ed energia e si inquina di più», spiega Seth Darling. «Inoltre in Europa la produzione elettrica comporta molta meno emissioni di CO2 che in Cina, per l’uso minore di carbone e il maggiore ricorso a fonti a basso o nullo contenuto di CO2, come nucleare, rinnovabili e metano. E non dimentichiamo che le stesse centrali termoelettriche europee sono in media molto più nuove ed efficienti di quelle cinesi».

Lo svantaggio ambientale dei moduli asiatici peggiora poi ulteriormente se si comprende anche, cosa non presa in considerazione nello studio, il non indifferente consumo di combustibili fossili per il lungo trasporto dall’Asia alle altre parti del mondo.

«Aver spostato la produzione di pannelli fotovoltaici dall’Europa alla Cina – dice Fengqi You – può forse aver avuto un senso economico. Ma non lo ha se consideriamo la differenza in sostenibilità ambientale del modulo prodotto: il fatto che un modulo sia prodotto in Cina dimezza la sua efficacia per quanto riguarda il contenimento del cambiamento climatico e, vista la riduzione dell’EROEI, peggiora la sua qualità di realistica alternativa energetica alle fonti fossili. Visto che vogliamo usare l’energia solare per avere un futuro più sostenibile, occorrerebbe considerare da questo punto di vista anche il luogo di produzione».

A questo fine You e Seth propongono di riconsiderare i dazi applicati sui moduli FV cambiandoli da “dazi economici” a “dazi ambientali”, cioè rendendoli proporzionali al contenuto di CO2 dei prodotti. Una tariffa che si aggiri fra 105 e 130 euro a tonnellata di CO2 contenuta nei pannelli (una variazione dipendente da eventuali tassazioni locali della CO2 in Cina e nella UE), secondo i due ricercatori, sarebbe sufficiente ed equa per premiare i prodotti più “verdi”, spingendo così sia a migliorare ulteriormente i processi industriali, che a spostare la costruzione dei pannelli nei luoghi della terra dove l’efficienza energetica è maggiore, si usano più materiali riciclati e l’elettricità ha il contenuto minore di carbonio fossile.

Tutte queste considerazioni l’UE avrebbe potuto farle già molti anni fa, senza attendere che glielo consigliassero dei ricercatori Usa, imponendo un riequilibrio dei prezzi basato sulla sostenibilità ambientale dei pannelli. Una mossa meno contestabile delle accuse di dumping e che avrebbe non solo salvato l’industria europea del settore, ma avrebbe anche reso il fotovoltaico una tecnologia ancora più efficiente nella sua “missione” di ridurre inquinamento, dipendenza energetica e alterazione climatica.

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