Rapporto IPCC, il clima non aspetta più la politica

Il nuovo rapporto IPCC descrive in modo inequivocabile la portata del rischio global warming in assenza di decise politiche di mitigazione. Le misure di contrasto finora non hanno rallentato la crescita delle emissioni. Necessario un forte incremento della produzione energetica low carbon. Non farlo comporterà costi economici molto più gravosi.

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La pubblicazione della versione integrale dell’ultimo rapporto IPCC-WGIII, Climate Change 2014: Mitigation of Climate Change, offre l’occasione di ampliare le considerazioni alimentate dalla sua diffusione in forma ridotta, la sintesi per i decisori politici (SPM, Summary for Policy Makers), che ne aveva anticipato i contenuti qualche giorno prima.

Analogamente a quelli prodotti dagli altri gruppi di lavoro IPCC (WGI e WII), questo documento, ancora emendabile, andrà a costituire parte del 5° rapporto IPCC di valutazione dei cambiamenti climatici (Fifth Assessment Report, AR5), di cui si prevede la pubblicazione tra settembre e ottobre 2014. Nel confronto delle due stesure, emergono dati di importanza capitale e omissioni che è bene sottolineare, anche per evidenziare le timidezze della politica internazionale, nei luoghi e nelle forme istituzionali delle trattative sui cambiamenti climatici, che rischiano di compromettere il cammino verso la stabilizzazione ambientale.

Il SPM, il documento di più agevole leggibilità e quindi caratterizzato dal massimo potenziale di comunicazione, descrive in modo inequivocabile la portata del rischio global warming in assenza di decise politiche di mitigazione, e per la prima volta propone un quadro di valutazione dei costi per l’economia globale nei diversi scenari di contenimento della concentrazione di CO2 atmosferica.

Malgrado le misure di contrasto poste in essere nello scorso decennio, le emissioni in atmosfera sono continuate ad aumentare (fig. 1, clicca su tutte le foto per ingrandire), raggiungendo nel 2010 il record assoluto di 49 GtCO2eq (±4,5 Gt, il margine di errore nella rilevazione dei dati è considerato del 10%).

Pur in presenza di una temporanea diminuzione dovuta alla prima fase della crisi economica (2007-2008), nel decennio 2000-2010 il tasso di crescita annuale dei rilasci atmosferici di CO2eq (2,2%) è stato superiore a quello del decennio precedente (1,3%). Le emissioni di CO2 da combustione di fonti fossili e da processi industriali continuano a costituire i 3/4 circa dell’incremento delle emissioni totali di gas climalteranti (GHG), senza sostanziali variazioni dagli anni 1970-2000.

La CO2 rimane il principale GHG. Nel 2010 ha costituito il 76% del totale (38±3,8 GtCO2eq/anno), sopravanzando nettamente il metano (CH4), 16% (7,8±1.6 GtCO2eq/anno), l’ossido di azoto 6,2% (3,1±1,9 GtCO2eq/anno) e i gas di fluoro, 2,0% (1,0±0,2 GtCO2eq/anno). Le emissioni cumulate totali antropogeniche di CO2 da combustione di fonti fossili, produzione di cemento e flaring, contate a partire dalla rivoluzione industriale (1750), nel 2010  hanno raggiunto 1300 Gt (±110) – erano 450±35 nel 1970 – mentre quelle associate alla gestione delle foreste e all’uso del territorio (FOLU) ammontano a 680 ±300 Gt (490±180 nel 1970). Rispetto a una classificazione settoriale (fig. 2), il peso maggiore è associato al settore energetico (35% delle emissioni nel 2010) che precede il comparto agricoltura, foreste e territorio (AFOLU, 24%), l’industria (21%), i trasporti (14%) e il settore residenziale (6,4%).

Con queste premesse, la possibilità nel 2100 di contenere entro 2 °C l’aumento di temperatura media, rispetto ai livelli pre-industrializzazione, che equivale a non superare per la fine del secolo una concentrazione di CO2 di circa 450 ppm, è rigidamente vincolata all’introduzione immediata di politiche per la riduzione delle emissioni. La consistenza dei principali drivers socio-economici, reddito pro capite (GDP per capita) e popolazione, il cui dato storico segnala il progressivo maggior peso (fig. 3), ne avvalora l’urgenza.

Gli scenari di lungo termine confermano che in assenza di efficaci politiche di mitigazione delle emissioni, caso baseline (business as usual), i rilasci annuali in atmosfera potrebbero crescere fino a circa 100 Gt di CO2eq, in un campo di valori compatibili con concentrazioni atmosferiche comprese tra 720 e 1000 ppm per cui è definito improbabile (unlikely) il target del limite di 2°C nell’aumento di temperatura (fig. 4).

In ogni caso, con riferimento al 2010, tutte le opzioni di mitigazione passano per forti incrementi del contributo al paniere dell’energia primaria dei sistemi di produzione energetica a bassa intensità di carbonio: dal 135% (2030) e 310% (2050) delle politiche più ambiziose (430-480 ppm), al 105% (2030) e 190% (2050) di quelle più conservative (580-720 ppm). Nel 2100 la quota dei sistemi low carbon energy non potrà essere inferiore al 70% (fig. 5).

Scegliere di non intervenire ora sugli obiettivi al 2030 comporterà un maggiore aggravio, al limite del sostenibile, sui i tassi di riduzione delle emissioni di CO2 e sugli obiettivi di incremento dello share dei sistemi low carbon dal 2030 al 2050 (fig. 6)

L’esame della valutazione dei costi economici delle azioni di mitigazione globale è molto dettagliato. Il costo di mitigazione dei possibili target è espresso in termini di perdita di consumi rispetto al caso baseline (in percentuale assoluta e in percentuale di riduzione del tasso di crescita annualizzato), con il beneficio opzionale di stimare il peso della limitazione all’accesso di alcune tecnologie zero carbon.

Dalla tabella di sintesi (fig. 7) emergono alcune osservazioni: l’obiettivo 450 ppm non comporta un onere così gravoso: riduzione del tasso di crescita dello 0,06%, anche in considerazione del calcolo dei costi effettuato senza l’inclusione dei benefici offerti dal tamponamento dei cambiamenti climatici. La rinuncia all’utilizzo diffuso della tecnologia di cattura e confinamento della CO2 (CCS, Carbon, Capture and Storage) comporta il maggior incremento dei costi di mitigazione; inoltre, dilazionare le politiche di mitigazione potrebbe implicare aumenti dei costi fino al 44% nel periodo 2030-2050.

Siamo di fronte a un quadro eloquente. L’esame della versione integrale del rapporto rivela tuttavia altre importanti criticità che non sono state inserite nel SPM. Balzano agli occhi i dati sulla tendenza dei contributi alle emissioni globali classificati per gruppi di paesi a categoria di reddito e quelli sull’attribuzione delle emissioni ai paesi per categoria di reddito e secondo il metro di valutazione importazioni/esportazioni dei prodotti consumati (figg. 8 e 9, 10).

Emerge chiaramente il peso rilevante acquisito dai paesi cosiddetti Upper Middle Income (UMI, tra i quali prevale la Cina) negli ultimi dieci anni, e il loro ruolo nel commercio internazionale dei prodotti ad alta intensità di carbonio il cui ciclo di consumo si conclude nei paesi ad alto reddito. Prescindere dal coinvolgimento anche dei paesi UMI in politiche di mitigazione assoggettate a limiti vincolanti delle emissioni potrebbe vanificare gli intenti stessi dell’azione globale di contrasto ai cambiamenti climatici.

Non aver inserito nel documento di sintesi per i decisori politici dati così qualificanti, si può temere a tutela di posizioni conservative di alcune parti interessate, non rappresenta un buon viatico per il superamento dello stallo in cui versano le negoziazioni sui futuri accordi internazionali per le politiche di riduzione delle emissioni climalteranti. Un ulteriore esito deludente nella prossima Conferenza UN sui cambiamenti climatici di Parigi potrebbe non lasciare più spazio ad appelli.

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