Banche e clima, brave solo a metà

Un report di Pricewaterhouse Coopers per conto di The Climate Group monitora le prestazioni nella lotta al global warming di 5 grandi gruppi finanziari che si stanno impegnando sul tema. I progressi ci sono ma si continua ad investire nelle fonti fossili senza valutarne adeguatamente i rischi ambientali e finanziari.

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Le grandi banche riducono le loro emissioni, ma nelle scelte di investimento resta tanto da migliorare e molti soldi vanno ancora a finanziare attività ad alto impatto sul clima, con conseguenti rischi non solo per le temperature del pianeta, ma anche per la finanza stessa. È questa la conclusione del report (vedi allegato) pubblicato il 29 gennaio e redatto da Pricewaterhouse Coopers per conto di The Climate Group.

Lo studio ha preso in esame le prestazioni in materia di lotta al global warming di 5 tra i maggiori istituti finanziari europei: le banche Crédit Agricole, HSBC e Standard Chartered e i giganti delle assicurazioni Munich Re e Swiss Re. Enti tra i più impegnati del settore sul fronte del clima: sono i cinque che nel 2008, tramite The Climate Group hanno sottoscritto i “Climate Principles”: linee guida elaborate dall’organizzazione no-profit per aiutare gli operatori della finanza a migliorare le proprie prestazioni in materia di lotta ai cambiamenti climatici.

Questa pagella, due anni dopo, mostra risultati discordanti. Da un parte i progressi sono molti e non si può dire che la finanza si stia lasciando sfuggire completamente i rischi e le opportunità della lotta al cambiamento climatico: oltre alle riduzioni delle emissioni in prima persona, nel report si trovano molte iniziative finanziarie in questo senso. Le assicurazioni, ad esempio, stanno sviluppando nuovi prodotti per minimizzare i rischi causati dai cambiamenti climatici (polizze sui danni da eventi meteo) o che si adattano al mondo delle rinnovabili (come le assicurazioni studiate per i sistemi fotovoltaici). 

Il fattore clima comincia ad essere importante anche nelle strategie di investimento: l’esempio qui è quello del Climate Change Index sviluppato da HSBC e che segue gli asset delle società che promettono meglio in un mondo alle prese con l’emergenza climatica. Da parte di tutti poi non mancano investimenti nelle fonti pulite (da notare i 7 miliardi di dollari investiti da Standard Chartered).

Ma il problema è che investimenti lungimiranti continuano a convivere con altri meno coerenti: i 5 istituti infatti – nota il report – continuano ad investire in progetti “sporchi”; si parla di investimenti che causano circa 100 mila tonnellate di CO2 equivalente all’anno. “Gli istituti dovrebbero essere più coscienti e trasparenti riguardo al finanziamento di progetti ad alta intensità di emissioni e alle strategie per fare sì che i loro portafogli di investimenti siano coerenti con gli obiettivi in materia di emissioni dei paesi in cui operano” spiega John Williams, uno degli autori. “Quello che le banche dovrebbero fare – commenta lo stesso Williams al Financial Times – è chiedersi: sappiamo che sta per arrivare una più stringente regolamentazione delle emissioni; e allora perché finanziare asset che saranno penalizzati nella decade a venire?”

Invece dal report emergono ancora lacune su come gli istituti valutano i rischi di investimento in base a questa visione. Una mancanza che potrebbe costare cara non solo al clima, ammonisce Alain Grisay, a.d. di F&C Asset Management, commentando lo studio su Business Green: “Se c’è una lezione da imparare dalla crisi del credito è che anche un sistema apparentemente razionale e guidato dalla competizione può incorrere in conseguenze tragiche quando c’è una mancanza sistematica nel riconoscere e dare un valore a rischi non convenzionali”.

GM

1 febbraio 2009

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