Donald Trump e l’industria dei fossili dalla parte opposta della storia

La strategia di Trump di disertare la lotta ai cambiamenti climatici è come un’arma globale contro tutti. Tuttavia non gli sarà così facile superare criteri, metodi, procedure e organismi di valutazione degli impatti della CO2, ormai alla base delle decisioni dell’amministrazione Usa.

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L’articolo nella versione digitale della rivista QualEnergia

Proprio nei giorni in cui Trump decideva il ritiro degli USA dall’Accordo di Parigi, la National Academic Press editava il rapporto: “Valuing Climate Damages: Updating Estimation of the Social Cost of Carbon Dioxide” (executive summary), curato da un comitato dell’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti.

Sono 282 pagine dedicate eminentemente a criteri e metodi per la valutazione del costo sociale della CO2 (SC-CO2) con raccomandazioni puntuali rivolte in particolare a chi aveva interpellato l’Accademia: l’Iwg, un gruppo di lavoro che proprio su quel tema collega più agenzie governative.

Fin dal 2008 le amministrazioni statunitensi hanno utilizzato le stime SC-CO2 nelle regole federali per valutare i costi e i benefici associati alle variazioni di emissioni di CO2 «secondo gli ordini esecutivi in materia di analisi dell’impatto normativo e come richiesto da una sentenza del tribunale».

I modelli di valutazione integrata (Iam) attualmente usati dall’Iwg definiscono le traiettorie di emissione di base, proiettando la crescita economica futura, la popolazione e il cambiamento tecnologico.

Ogni tonnellata di aumento di emissioni di CO2, è aggiunta alla traiettoria di emissione di base, incremento che viene trasferito nel corrispondente aumento di concentrazione in atmosfera che a sua volta contribuisce all’aumento della temperatura media globale. Le variazioni climatiche indotte da questo e altri fattori rilevanti sono tradotti in impatto fisico e quantificazione economica dei danni.

La valutazione non è limitata ai danni di mercato – produttività agricola, uso energetico, danni alla proprietà per aumento delle inondazioni – ma anche a quelli non di mercato, come i danni alla salute o ai servizi resi alla società dagli ecosistemi naturali. Attesa la persistenza in atmosfera del ciclo della CO2 «for well over a millennium», oggi le variazioni registrate nelle emissioni «may affect economic outcomes for centuries to come».

La metodologia Iwg combina decine di migliaia di valutazioni SC-CO2 e i programmi, fatti girare sulla base di cinque diverse proiezioni socioeconomiche e di emissione, producono tre diverse stime in corrispondenza a tre diversi tassi di sconto. Per esempio, se una norma prevedesse la riduzione di un milione di tonnellate di CO2 al 2020 la stima Iwg, per un tasso di sconto al 3%, del beneficio del costo sociale evitato sarebbe di 42 milioni di dollari.

Il compito del comitato era di garantire che le stime di SC-CO2 riflettessero la migliore scienza disponibile, con particolare attenzione alla scelta dei modelli e alle funzioni di danno, alle ipotesi di modello della scienza climatica, agli scenari socioeconomici e delle emissioni, alla rappresentazione dell’incertezza e all’attualizzazione.

Questa lunga premessa, riteniamo sia utile a collocare, in un contesto più razionale, la scontata ma ribalda decisione di Trump, il presidente di “America First”.

Quand’anche proseguisse in questa strategia, dove la diserzione dalla lotta allo sconvolgimento climatico è puntata come un’arma globale contro tutti, non sarebbe poi così facile superare criteri, metodi, procedure e organismi di valutazione ormai alla base delle decisioni dell’Amministrazione.

Il «ma come si è permesso» è stato il primo moto di ribellione, forse infantile, che ha percorso molti cuori. Magnifiche le manifestazioni di piazza negli Stati Uniti in nome della difesa del clima e l’analoga opposizione di governatori e sindaci di grandi città, resa manifesta dall’accendersi di verde dei loro palazzi, cui hanno risposto in egual modo alcune capitali europee. E poi, l’affollarsi d’interrogativi pieni di giustificato sdegno.

Qual è la portata giuridica della decisione di Trump? Non si tratta forse di un atto che, per la sua unilateralità, innesca gravi effetti sugli altri Paesi?

Come non tener presente che un esempio, del tutto disinvolto e spregiudicato, offerto da un Paese che è anche leader mondiale di opinione, non possa essere un incentivo per tutti a usare la stessa disinvoltura nell’onorare gli impegni internazionali, in particolare in campo ambientale? Non merita l’intervento dei massimi organismi internazionali, come qualsiasi atto di turbativa unilaterale?

Qual è in definitiva la differenza tra l’intensificarsi di fenomeni di sconvolgimento climatico e iniziative di carattere militare con il conseguente, usuale sconvolgimento degli equilibri ambientali del Paese a essi sottoposto?

E poi l’interrogativo meno sdegnato ma forse più preoccupato. Questo remare contro Trump non bloccherà le strategie della green economy, della rivoluzione energetica e delle rinnovabili che ne sono un cardine?

Come già affermammo, non isolati, in conclusione dell’Accordo di Parigi che il suo senso principale era l’inizio della fine dell’era dei fossili, così oggi sosteniamo, con uguale determinazione e con buone ragioni, che Trump è un “reazionario” nel senso più classico della parola: va nella direzione opposta a quella della storia.

E il suo insistere su “America First” su questo terreno può segnare l’inizio di un declino dell’impero americano. Parole grosse? Non sono solo le affermazioni nette dei responsabili politici di tutta la Ue per continuare sulla strada di Parigi o l’inedito asse Ue-Cina che si è in tal senso determinato.

La Cina, che è già in testa a quasi tutte le produzioni di beni fondamentali, incluso oltre il 90% degli elementi rari di cui si nutre l’innovazione tecnologica, anche nella Silicon Valley, ha preso decisamente in mano la vicenda; sarà perché a Shangai e a Pechino si respira smog e fiumi e territori ribollono di inquinamento, ma così è.

Un passaggio dalla vecchia superpotenza a una nuova, programmaticamente sorda sul terreno dei diritti civili? No, è proprio in atto quella che, ormai da lustri, chiamiamo “rivoluzione energetica”.

È una strategia globale che coinvolge 180 Paesi, che rappresentano il 95% delle emissioni globali, a fronte di poco più del 55% all’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto (2005). All’inizio del 2015 erano 164 i Paesi che si erano dati obiettivi nel campo delle rinnovabili e 145, rispetto ai 15 del 2005, che agli obiettivi hanno fatto corrispondere politiche per la loro realizzazione.

Tutti si stanno muovendo, in particolare i Paesi emergenti o in via di sviluppo. Impressionante l’incremento dei tassi di investimento realizzato in alcuni di essi (2015 vs 2014): Messico più 114%; Cile più 157 %; Sud Africa più 329%; Africa e regioni del Medio Oriente up 54%.

Già nel 2014 i Paesi in via di sviluppo avevano investito nell’eolico più dei Paesi sviluppati (58 vs 41 miliardi di dollari); e sempre in quell’anno, Asia, senza Cina, e Oceania avevano investito nelle rinnovabili più degli Stati Uniti (48,7 vs 38,3 mld di $).

Che fine farà la ripresa registrata nel 2015 negli States – 56 miliardi di dollari – dopo il voltafaccia di Trump? In ogni caso, dopo che l’Europa ha fatto da apripista, è dal 2015 che la Cina è leader per le fonti rinnovabili con 110 miliardi di dollari di investimenti.

Trump e i magnati del fossile vadano pure per la loro strada. La storia ne ha già intrapresa un’altra.

L’articolo è stato pubblicato sul n.3/2017 della rivista bimestrale QualEnergia, con il titolo “La strada della storia”.

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