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Perché all’economia globale serve una carbon tax

La commissione speciale sul carbon pricing istituita nel 2016 a Marrakech e presieduta da economisti del calibro di Stiglitz e Stern, evidenzia la necessità di tassare la CO2 fino a 100 $/tonnellata entro il 2030. La proposta e i limiti delle attuali politiche, anche alla luce delle scelte di Trump.

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La CO2 deve avere un prezzo molto più alto di quello attuale, per consentire ai paesi di tutto il mondo di completare in modo incisivo la transizione energetica verso le tecnologie pulite.

Parliamo di almeno 40-80 $ per tonnellata di anidride carbonica nel 2020, per poi salire a 50-100 $ dieci anni più tardi.

Questa è la conclusione cui è giunta la commissione speciale (High-Level Commission) incaricata nel 2016, nell’ambito della Cop 22 a Marrakech, di trovare le soluzioni più adatte per dare un seguito agli accordi di Parigi che sarebbero destinati a sortire ben pochi effetti concreti senza un adeguato corollario di misure per decarbonizzare l’economia globale.

L’annuncio di Trump sulla futura uscita degli Stati Uniti dal patto ambientale, con una decisione del tutto coerente con il suo clima-scetticismo ostentato fin dalla campagna elettorale, non fa che aumentare le incertezze sulla “tenuta” degli obiettivi formulati nella capitale francese.

Tutti sappiamo che l’impegno preso dalla comunità internazionale è limitare il surriscaldamento globale ben sotto i 2 gradi centigradi, evitando così i rischi ambientali più catastrofici dovuti al cambiamento climatico.

Finora, però, nessuna politica di carbon pricing è riuscita a modificare in profondità i comportamenti dei settori industriali più energivori.

Come sottolinea la commissione presieduta dal premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz e dall’ex capo economista della Banca Mondiale, Nicholas Stern, nel suo rapporto finale (Report of the High-Level Commission on Carbon Prices, allegato in basso), l’assoluta maggioranza delle emissioni mondiali di CO2 (85%) è “libera” da qualsiasi vincolo di prezzo.

Come se non bastasse, i tre quarti delle emissioni sottoposte a qualche meccanismo di carbon pricing, in realtà, sono prezzati a un livello così basso – meno di 10 $/tonnellata – da non costituire alcun incentivo per gli inquinatori a investire in efficienza energetica e fonti rinnovabili.

Basti considerare l’esempio del sistema EU-ETS (Emissions Trading Scheme), il principale mercato che prevede l’assegnazione di quote di CO2 entro soglie prestabilite per ciascun comparto industriale, coinvolgendo complessivamente oltre 11.000 siti produttivi europei.

Ebbene, per una serie di ragioni (articolo di QualEnergia.it sulle ipotesi di riforma), tra cui la sovrabbondanza di quote invendute, il prezzo della CO2 anziché salire è diminuito, così le imprese trovano assai più conveniente pagare quel poco che costa ogni “diritto” a emettere una tonnellata di CO2, piuttosto che spendere somme ben più cospicue per ammodernare gli impianti e risparmiare energia.

Il problema quindi è convincere le aziende a modificare le proprie abitudini, eliminando progressivamente l’utilizzo di combustibili fossili e tecnologie obsolete.

Secondo la commissione speciale, che è sostenuta dalla Carbon Pricing Leadership Coalition, un’iniziativa della Banca Mondiale, i governi possono attuare diverse misure per abbattere le emissioni inquinanti.

Il modo più esplicito e diretto per colpire la CO2 è attraverso una carbon tax o un mercato cap-and-trade come quello europeo, a patto ovviamente di tracciare un corridoio di prezzo via via più pesante da ammortizzare per i grandi inquinatori, che quindi sarebbero incoraggiati a “ripulire” le loro attività, emettendo sempre meno anidride carbonica.

Il problema però è che lo sforzo dovrebbe essere comune, altrimenti le aziende del paese X potrebbero decidere di spostare investimenti e produzioni in paesi Y e Z più lassisti per quanto concerne le restrizioni ambientali (è il cosiddetto carbon leakage).

Il carbon pricing, in sostanza, andrebbe formulato su scala globale; ed è questa è la parte più difficile, basti vedere quanto sia contrario Donald Trump a simili politiche, tanto da aver già smantellato o messo in discussione buona parte delle azioni “verdi” di Barack Obama.

Eppure, come abbiamo evidenziato di recente (vedi QualEnergia.it), questo sarebbe il momento giusto per riformare la fiscalità ambientale, in Italia come in tanti altri paesi, spostando la tassazione dal lavoro alle risorse energetiche più inquinanti.

La ricetta prevede di ridurre o cancellare i sussidi “sporchi”, ad esempio le varie esenzioni dalle accise sui carburanti fossili. Questi ultimi, invece, dovrebbero incorporare le cosiddette esternalità negative, i costi sociali e ambientali correlati al loro ciclo di vita (estrazione, produzione, utilizzo).

Il punto, come osservano gli economisti guidati da Stiglitz e Stern, è che la tassazione del carbonio avrebbe un effetto di stimolo complessivo sull’economia, se ben coordinata con altre politiche di sostegno alle rinnovabili, alla mobilità elettrica, ai trasporti pubblici, alle città sostenibili e così via.

Peraltro, i ricavi del carbon pricing, si legge nel documento, potrebbero essere impiegati in diversi modi virtuosi, ad esempio per ridurre altre tasse sul lavoro e sulle imprese, finanziare l’innovazione tecnologica nel campo della green economy, concedere sgravi fiscali alle aziende, sostenere le famiglie a basso reddito.

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