Clima, migranti e il riconoscimento del “rifugiato ambientale”

Tra 2008 e 2014, 157 milioni di persone hanno abbandonato loro terre. La Convenzione di Ginevra garantisce protezione a chi, tra questi, era vittima di guerre e persecuzioni ma non contempla la figura del rifugiato ambientale che non ha diritto a una concreta protezione.

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L’articolo nella versione digitale della rivista QualEnergia

A Milano, lo scorso 24 ottobre, quattrocento persone hanno seguito il convegno Il secolo dei rifugiati ambientali? promosso da Barbara Spinelli, dal gruppo parlamentare europeo Gue/Ngl e dalle associazioni Laudato si’, Costituzione Beni Comuni e Adif, con il sostegno del Centro europeo di eccellenza Jean Monnet.

La Convenzione di Ginevra garantisce protezione alle vittime di guerre, persecuzioni politiche, religiose o sociali, ma non contempla la figura del rifugiato ambientale.

Secondo Roger Zetter, dell’Università di Oxford, cercare di estendere la protezione a chi abbandona il proprio paese, a causa di disastri o degrado ambientale, diluisce il concetto di profugo, riduce l’esigibilità dei suoi diritti, mentre il rapporto tra degrado ambientale ed esodo non è mai diretto; molti altri fattori si aggiungono nel motivare l’abbandono di un paese: «l’ambiente non perseguita».

François Gemenne, dell’Università di Versailles-Saint Quentin, invece, evidenziando come le principali trasformazioni del pianeta siano ormai riconducibili all’opera dell’uomo, sostiene che a provocare quell’esodo non è «l’ambiente, ma siamo noi: i nostri consumi e il sistema economico. I profughi ambientali sono vittime di una persecuzione vera e propria e hanno diritto a una protezione».

Quell’esodo era stato previsto da esperti e agenzie varie, tra cui il Pentagono, che già nel 1994 scriveva che Europa e USA si dovevano attrezzare militarmente per respingere i flussi migratori che avrebbero provocato i disastri ambientali, per non esserne sommersi. I profughi come nemici dell’Occidente del Ventunesimo  secolo.

Stephane Jaquemet, delegato dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ha fornito molti numeri: tra i quali 27,8 milioni di sfollati interni nel 2015. Guerre e violenze ne hanno creati 8,6 milioni; i disastri ambientali 19,2.

Tra il 2008 e il 2014, 157 milioni di persone hanno dovuto abbandonare le loro terre e, almeno un terzo, non ne ha più fatto ritorno. Solo una frazione infinitesimale di quei flussi ha sfiorato l’Europa.

Sull’intreccio tra guerre, degrado ambientale e grandi progetti che lo determinano, si è soffermata Marica Di Pierri, direttrice dell’associazione A Sud, mentre Francesca Casella ha citato l’intervento della cooperazione italiana e dell’impresa Salini nella costruzione di un sistema di dighe nella Valle dell’Omo (Etiopia) che provoca espulsione e massacro di un’intera popolazione.

Sul rapporto tra giustizia sociale e giustizia ambientale, rispetto della Terra, della Natura, dei suoi cicli, dei suoi diritti, è intervenuto Giuseppe di Marzo, coordinatore della campagna Miseria Ladra, Reddito di Dignità e Patto sociale per Libera, mentre Grammenos Mastrojeni ha spiegato come affidando alle popolazioni locali la gestione di progetti per restituire fertilità al suolo, si tutela anche l’identità sociale, e con essa un’alternativa all’emigrazione.

Per don Virginio Colmegna, presidente della Casa della Carità di Milano l’emergenza non è la nostra, ma è di coloro che arrivano: sono i portatori di una rivendicazione di diritti e di dignità, mentre noi li “categorizziamo” come profughi e migranti economici per respingerli e nascondere l’origine del problema.

Nella sua introduzione Barbara Spinelli ha invitato a risalire alle radici dei processi di espulsione dei profughi ambientali; a rivedere le teorie economiche che promuovono uno sviluppo che provoca i danni all’origine di questi flussi, ma soprattutto ad attrezzarsi per intervenire alla radice di quei processi.

L’articolo è stato originariamente pubblicato sul n.5/2016 della rivista bimestrale QualEnergia con il titolo “Scappare dall’ambiente”

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