Roadmap verso un orizzonte a energia rinnovabile

Distratti dagli obiettivi 2030, in attesa della SEN e di un Green Act che non ha mai dato segni di sé, dimentichiamo la necessità di politiche industriali, agricole, forestali, funzionali agli obiettivi di contenimento delle emissioni, realizzabili solo se si cambia velocità di marcia. A fine 2016 delle misure per il periodo 2017-2020 non vi è traccia.

ADV
image_pdfimage_print

L’articolo nella versione digitale della rivista QualEnergia

È vero che nel 2015 la produzione da fonti rinnovabili ha coperto in Italia il 17,3% dei consumi interni lordi (Cil), superando, seppur di poco, l’obiettivo al 2020. Chi utilizza questo risultato per dire che abbiamo esagerato nel sostenere le rinnovabili ed è doverosa una pausa di riflessione, evita di spiegare perché sia stato così facile arrivarci.

Eppure non occorre spremersi le meningi per comprendere cosa è successo: basta scorrere la tabella di seguito, che mette a confronto gli obiettivi fissati nel 2010 dal Piano di Azione Nazionale per le energie rinnovabili (Paner) con il consuntivo 2015 del GSE:

Per raggiungere l’obiettivo al 2020, il Paner prevedeva una maggiore produzione di energia (elettrica, termica, nei trasporti) FER pari a 12,1 Mtep. Ebbene, tra il 2010 e il 2015 abbiamo aumentato la produzione FER di soli 3,98 Mtep (un terzo del previsto) e abbiamo centrato l’obiettivo.

Il gioco delle tre tavolette

La crisi economica ha facilitato un po’ la cosa, ma non di molto: la minor crescita dei Cil è stata di circa 1,3 Mtep. A fare la differenza è stata principalmente la correzione da parte Istat di un grosso errore statistico.

Un’indagine sui consumi energetici delle famiglie nel 2013 ha rivalutato enormemente, rispetto alle stime precedenti, la quantità di biomassa bruciata per produrre calore: per il 2013 il volume degli usi di biomassa nel settore residenziale è stato pari a circa 19 Mt (divise tra 17,5 Mt di legna e 1,5 Mt di pellet), di cui circa la metà sfuggirebbe al mercato.

Il GSE ha conseguentemente aggiornato il contributo delle biomasse alla produzione di calore nel 2010 che, come indica la tabella precedentr, è addirittura risultato del 35% superiore all’obiettivo prefissato per il 2020 sulla base delle stime precedenti. Rispetto al contributo per il 2010 rivalutato, le bioenergie termiche hanno quindi registrato una crescita assai modesta (0,04 Mtep), addirittura inferiore al solare termico (0,06 Mtep): solo la geotermia ha fatto peggio (0,01 Mtep).

La crescita del settore termico è quasi tutta dovuta alle pompe di calore (0,49 Mtep). A mantenere così basso l’apporto aggiuntivo delle bioenergie hanno indubbiamente contribuito:

  • il ritardo con cui è stato varato il conto termico e la scarsa efficacia della sua prima versione;
  • il calo dei consumi, rilevato a partire dal 2013, a causa degli inverni miti, che hanno ridotto sensibilmente il fabbisogno termico residenziale (V. Francescato, Il fascino sostenibile del fuoco, in «QualEnergia», giugno-luglio, 2016);
  • il turnover tecnologico, con la sostituzione dei camini, delle caldaie e delle stufe installati con prodotti più efficienti (M. Berton, La filiera Legno-Energia. Come valorizzare le risorse di biomassa del nostro territorio, relazione a «Bioenergia: quali prospettive per l’agricoltura italiana», Milano, 6 luglio 2015).

Una lettura non formale del consuntivo degli ultimi cinque anni propone pertanto un panorama molto meno ottimistico, soprattutto se si traguarda l’obiettivo al 2030, fissato dal Consiglio europeo: 27% del Cil coperto da fonti rinnovabili. Pur assumendo che una crescita dell’efficienza energetica, maggiore di quella fin qui realizzata, riesca a compensare la crescita del Pil di qui al 2030, per cui il Cil del 2015 (122,21 Mtep) rimarrebbe invariato fino al 2030, dovremmo aggiungere circa 12 Mtep: per ogni prossimo quinquennio, una cifra praticamente uguale all’incremento realizzato nel 2010-2015.

Altro che sedersi sugli allori e tirare i remi in barca da qui al 2020. Supponiamo che da oggi al 2030 la produzione termica da rinnovabili viaggi a velocità doppia rispetto al passato quinquennio e che i trasporti triplichino il contributo del 2015, risultato conseguibile se al maggior apporto dei biocarburanti sarà associata una penetrazione molto sostenuta della mobilità elettrica, per almeno la metà alimentata da rinnovabili. Malgrado quest’accelerazione, nel 2030 il contributo aggiuntivo di questi due settori sarebbe pari a poco meno di 6 Mtep.

Di conseguenza, da qui al 2030 la produzione elettrica con rinnovabili dovrebbe crescere di circa 70 TWh, da realizzare di fatto in quattordici anni, dato che il ritardo del decreto per le elettriche non fotovoltaiche ha praticamente fatto perdere il 2016.

Questo obiettivo va confrontato con la crescita massima della potenza installata, ipotizzata da Althesys nella relazione al Convegno di assoRinnovabili “Cop 21: cosa deve cambiare nella politica energetica italiana“, (24 maggio 2016).

Nell’insieme si tratta di obiettivi sfidanti, poiché in quattordici anni rispetto al 2015:

  • l’eolico dovrebbe aggiungere poco più di 10.850 MW: 775 MW/a, contro 423 MW installati nel 2015;
  • la potenza fotovoltaica addizionale (16.100 MW) comporterebbe l’installazione di circa 1150 MW/a, mentre nel 2015 sono stati installati 298 MW;
  • per le bioenergie si dovrebbero installare 2.050 MW, cioè circa 150 MW/a: nel 2015 sono stati aggiunti 43 MW.

In tutta evidenza si tratta di obiettivi effettivamente realizzabili solo se si cambia innanzitutto direzione e velocità di marcia, ma siamo a fine 2016 e delle misure del governo per il periodo 2017-2020 non vi è ancora traccia.

Occorre altresì rimuovere le norme introdotte negli ultimi anni, che pongono ostacoli allo sviluppo delle rinnovabili, introdurre semplificazioni del permitting e un mix di misure facilitatrici: agevolazioni finanziarie (fondo di garanzia e/o maxi ammortamenti per gli investimenti) e forme di carbon pricing del tipo già adottato in Francia e Regno Unito e in precedenza anche in altri paesi europei.

Incrementi possibili

Pur con queste misure, e tenendo conto del contributo di altre tecnologie disponibili (Csp, mini-idro e geotermia a media-bassa entalpia) che, colpevolmente, spesso non sono prese in considerazione, l’apporto delle rinnovabili elettriche potrebbe al massimo aumentare di 50 TWh la produzione elettrica da qui al 2030.

Poiché le proiezioni di Althesys, solo nel caso dell’eolico, includono 4.500 MW, derivanti dal revamping degli impianti esistenti, ulteriori incrementi produttivi possono venire da analoghi interventi per le altre tecnologie.

In particolare nel caso del fotovoltaico esistono solide prospettive d’innovazioni anche radicali. L’impegno sarebbe ancora più sfidante, se l’obiettivo europeo, com’è possibile, fosse alzato al 30%: in tal caso la produzione da Fer dovrebbe fornire altri 3,6 Mtep ma rinnovabili ed efficientamento energetico difficilmente riuscirebbero a colmare interamente il gap.

Esistono altri strumenti in grado di ridurre le emissioni di gas climalteranti: innanzitutto la chiusura delle centrali a carbone e il ricorso al gas naturale nel trasporto, soprattutto per quello pesante su strada e per la navigazione, tenendo presente che il processo di decarbonizzazione non si ferma al 2030, occorre puntare su cambiamenti più innovativi, a partire dall’applicazione estesa di alcune innovazioni digitali.

Uno studio condotto dall’osservatorio Internet of Things del Politecnico di Milano evidenzia che, grazie alla loro adozione pervasiva a livello di sistema paese, sarebbe non solo possibile risparmiare complessivamente circa 4,2 miliardi di euro all’anno e migliorare significativamente la qualità ambientale delle città  (si eviterebbero 7,2 milioni di tonnellate di CO2 all’anno) e la qualità della vita: ogni cittadino “risparmierebbe” l’equivalente di quasi cinque giorni all’anno, evitando di passarli in coda nel traffico sulla propria auto o sui mezzi pubblici, oppure alla ricerca di un parcheggio libero.

Più in generale, l’applicazione estesa di sistemi produttivi basati sull’economia circolare, di cui ho parlato sul precedente numero della rivista (Il senso del limite dell’economia), porterebbe a un uso più efficiente di tutte le materie prime, contribuendo per questa via a ridurre in misura sostanziosa la domanda di energia.

La riduzione delle emissioni di CO2 può venire anche dalla diffusione della bioeconomia, che trova già applicazioni in agricoltura e in silvicoltura, nella produzione alimentare, nella pesca, nella produzione di pasta di carta e di carta, nonché in alcuni comparti dell’industria chimica e biotecnologica: nel 2013 la bioeconomia ha infatti rappresentato il 7,9% della produzione italiana, occupando quasi un milione e mezzo di persone.

Ad esempio, l’impianto per la produzione 30 mila t/a di biobutandiolo, recentemente inaugurato da Novamont, utilizza materie prime rinnovabili provenienti dal territorio circostante (entro un raggio di 30 km), con emissioni di CO2 inferiori al 50% di quelle di un analogo impianto tradizionale.

Altri notevoli contributi alla riduzione delle emissioni di CO2 possono venire:

  • dalla riduzione dell’import di legna da ardere e di pellet, dove l’Italia detiene il record mondiale. Questo, mentre in Italia il bosco è passato da 5,5 milioni di ettari del 1950 a oltre 10,4 milioni di ettari dei giorni nostri: copre oggi il 34,7% del territorio nazionale, ma si taglia soltanto il 24% circa degli accrescimenti annuali, contro una media europea del 56%. Sono quindi enormi i margini di riduzione dell’import, che farebbe diminuire i costi economici e ambientali derivanti dal trasporto della medesima quantità da altri paesi (fra cui Canada e Stati Uniti) e aumentare la produzione e l’occupazione nazionale (la classica soluzione win-win);
  • dalla diffusione accelerata del “biogasfattobene” che oltre ad accrescere generazione elettrica rispetto al valore deducibile dallo scenario di Althesys, può aumentare la produzione di biometano, nel contempo sottraendo CO2 dall’atmosfera e sequestrandola in modo stabile nel terreno.

Va infine messo nel conto il ruolo della cosiddetta Industria 4.0, che renderà le fabbriche capaci di auto-configurarsi e auto-aggiornarsi, grazie alla diffusione capillare di sensori e di “intelligenza” distribuita, all’interconnessione dei macchinari tra loro e con l’Internet delle Cose.

Queste innovazioni nei processi produttivi e nei prodotti faciliteranno la transizione a go green di molte aziende tradizionali: se fossero adottate da tutte le industrie italiane, il conseguente risparmio energetico sarebbe pari a circa 75 TWh. Una percentuale indicativa di questo valore teorico darebbe un contributo rilevante alla decarbonizzazione del settore industriale.

Oltre la Sen

Tutto ciò significa andare ben oltre l’aggiornamento della Sen, promesso per la primavera prossima, anche nell’ipotesi – tutta da verificare – di una rinnovata attenzione, al suo interno, per il ruolo di contrasto al cambiamento climatico che efficienza e rinnovabili devono necessariamente avere. Si tratta di varare politiche industriali, agricole, forestali, funzionali agli obiettivi di contenimento delle emissioni di gas climalteranti; a loro volta accompagnate da altre misure di promozione di nuovi servizi (come quelli relativi alla mobilità), altrettanto essenziali per realizzare tali obiettivi. Con le conseguenti ricadute positive sull’occupazione e sull’economia.

Questa dovrebbe essere la funzione del Green act, novella araba fenice: promesso per maggio 2015, non ha ancora dato segnali di sé. Oltretutto, averne affidata la stesura al ministero dell’Ambiente significa non avere compreso che la multidimensionalità di un simile atto d’indirizzo coinvolge un numero così elevato di dicasteri da richiedere una cabina di regia, necessariamente affidata alla presidenza del Consiglio.

Queste considerazioni ci riportano al punto di partenza, alla leggenda metropolitana dell'”abbiamo fatto troppo“, che rivela la scarsa attenzione dedicata agli impegni da prendere per promuovere uno sviluppo ambientalmente sostenibile, da cui discende la sottovalutazione delle sue potenzialità in termini di sviluppo economico e sociale.

Con due risultati paradossali. Si afferma di volere evitare il ripetersi degli errori commessi col fotovoltaico, mentre non intervenendo tempestivamente, si accumuleranno di nuovo ritardi, che sarà obbligatorio colmare con interventi frettolosi, quindi meno efficienti e più costosi. Si pensa che sia prioritario tutelare altri interessi ma così facendo, non li si aiuta ad adeguarsi in tempo utile al prevedibile cambiamento delle condizioni al contorno, danneggiandoli.

L’articolo è stato originariamente pubblicato sul n. 5/2016 della rivista bimestrale QualEnergia con il titolo “L’orizzonte è rinnovabile”

ADV
×