Mobilità sostenibile, il sindacato e il futuro dell’occupazione

Con l'avvicinarsi del recepimento della direttiva europea Dafi, sulla mobilità sostenibile, anche il sindacato s'interroga circa le questioni che porranno al mondo del lavoro le scelte tecnologiche e infrastrutturali che si stanno facendo. Ma l'Italia non sembra avere una visione innovativa.

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Che si sia alle soglie di un cambiamento sul fronte della mobilità è certo, ma è un po’ meno scontato che industrie e parti sociali italiane ne siano consapevoli.

Questa è la ragione per la quale in Italia sull’argomento si sta andando in ordine sparso, con grandi compagnie come Enel che entrano nel nascente mercato dell’auto elettrica e giganti come Eni che puntano, come del resto l’ex Fiat ora Fca, sul metano.

E non basterà nemmeno il recepimento della direttiva europea Dafi (Directive on alternative fuel infrastructure) a fare un po’ di ordine visto che la stessa in pratica dichiara una certa dose di neutralità tra le tecnologie per la mobilità sostenibile, ossia che tutte debbano avere le stesse possibilità di sviluppo. Una neutralità imposta per “direttiva” dall’Europa con ogni probabilità per evitare spinte da parte di alcuni stati membri e gruppi d’interesse che avrebbero potuto sbilanciare le prospettive di medio periodo all’interno della Ue.

Questi sono stati i presupposti dell’appuntamento organizzato dalla Cgil a Roma dal titolo “Trasporto sostenibile e carburanti alternativi. Mobilità elettrica, biocarburanti, idrogeno, Gnl (Gas naturale liquefatto)”, che si è svolta nella sede nazionale di Corso d’Italia a Roma. E la partita dei trasporti e della mobilità è cruciale per il mondo del lavoro.

Le scelte di politica industriale dei prossimi anni, infatti, avranno riflessi importanti sull’occupazione, in un settore, quello dell’automotive, che in Italia ha delle caratteristiche molto particolari rispetto agli altri paesi europei.

Noi infatti paghiamo le scelte fatte alcuni decenni addietro che crearono un monopolio unico nella produzione delle auto dal lato manifatturiero, mentre sotto a un altro profilo, il fatto che l’Italia punti, in primo luogo, al metano per l’autotrazione è un fatto evidente sancito dall’accordo siglato qualche giorno fa al Ministero dello Sviluppo Economico da Fca, Iveco e Snam, presenti il ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda, il responsabile dei Trasporti Graziano Delrio, Alfredo Altavilla di Fca, il presidente di Iveco Pierre Lahutte e il Ceo di Snam Marco Alverà.

L’obiettivo dell’accordo è quello di aumentare la produzione di veicoli a gas naturale e intensificare la realizzazione di nuovi punti di distribuzione.

E non devono sfuggire due fatti. L’Italia è dotata di una delle reti più capillari per il metano e i cambiamenti nella manifattura dei veicoli nel passaggio dalla benzina al metano sono minimi. Stessi motori, endotermici, stessi pianali e stessa elettronica. Insomma, il ruolo che si prefigura per l’Italia potrebbe essere quello, ancora una volta, dello zoccolo duro per un’azienda che è allo stato attuale poco innovativa sotto al profilo della mobilità sostenibile.

Questo è stato lo scenario che si sentiva in sottofondo durante l’appuntamento durante il quale sono state citati gli esempi, in negativo, dell’informatica e delle telecomunicazioni in Italia degli ultimi trent’anni. L’agonia e la morte dell’Olivetti che all’epoca era la seconda industria informatica al mondo e che aveva capito, prima di Ibm, il passaggio epocale all’informatica distribuita. E così la preoccupazione del sindacato. che sulla mobilità sostenibile si giochi una partita, negativa, analoga a quella dell’informatica, si è notata in maniera netta.

«Il mondo della mobilità dovrà affrontare trasformazioni molto profonde che andranno gestite con intelligenza, altrimenti rischiamo una vera catastrofe sul piano industriale e occupazionale. – ha detto Antonio Filippi, responsabile delle politiche energetiche della CGIL Nazionale – Analogamente a quanto avvenuto per il settore elettrico, anche il comparto dei trasporti vedrà trasformazioni rapide e irreversibili con l’emergere nel prossimo decennio di soluzioni destinate a mettere in minoranza i veicoli tradizionali».

Una delle questioni del dibattito ha riguardato l’idrogeno che sembrava prima messo da parte, poi recuperato nella stesura del decreto di recepimento della direttiva.

«La questione clima diventa cruciale e con la ratifica dell’accordo di Cop 21 si entra nel vivo – ha detto Nicola Conenna, presidente della Fondazione Hydrogen University – Siamo un paese senza materie prime, metano compreso che ha bisogno delle rinnovabili. E nel settore dei trasporti è necessario un vettore energetico che può essere come elemento di transizione il gas naturale, sviluppando contemporaneamente l’idrogeno producendolo dalla mancata produzione elettrica dell’eolico».

Le due filiere non sono in realtà in contraddizione, ma contigue. Il vero problema risiede nelle scelte.

Gas e idrogeno, infatti, possono essere utilizzati con i motori endotermici, e qui lo sguardo è rivolto al passato, oppure con le celle a combustibile – che negli ultimi anni hanno raggiunto una vita media di 8.000 ore, paragonabile alla durata dei motori endotermici – accoppiate con la trazione elettrica.

Andando così verso una convergenza tecnologica con l’elettrico puro alimentato a batterie. E l’eolico, con la sua mancata produzione che non dipende dalla pale, ma dalla capacità della rete di recepirne l’elettricità prodotta, è un dato rimarcato nel suo intervento da Rosita Galdiero, Segretario Generale della Cgil di Benevento.

«L’alluvione dello scorso anno ha distrutto il tessuto industriale, con una perdita di 20mila posti di lavoro. ha detto Galdiero E allora abbiamo tentato d’immaginare la ricostruzione di questo tessuto e abbiamo notato che sul nostro territorio abbiamo delle risorse sul fronte dell’energia. Oltre alla mancata produzione elettrica dell’eolico abbiamo anche la diga di Campolattaro che è tutt’ora inutilizzata. Pensiamo che una simile riserva d’energia possa essere utilizzata per produrre idrogeno, al fine di uno sviluppo occupazionale territoriale ecologico, sano e duraturo che riguardi anche la realizzazione delle colonnine di ricarica dell’idrogeno e non solo sui carburanti».

Tempi lunghi per il Ministero dello Sviluppo economico, invece, per quanto riguarda la transizione. E se da un lato Giovanni Perrella, della Segreteria tecnica del Ministero dello Sviluppo Economico, potrebbe avere ragione affermando che oltre il 25% dei veicoli circolanti sono Euro 0 ed Euro 1 e il tempo medio di ricambio del parco automobilistico in Italia è di 15 anni, sotto un altro profilo, bisogna considerare l’accelerazione nella diffusione di tutte le innovazioni tecnologiche degli ultimi trenta anni.

Il primo telefono mobile vide la luce nel 1973 nei laboratori Bell e fu commercializzato nel 1983, diventando un fenomeno acquisibile da un’utenza professionale nel 1989 (100mila abbonati in Italia), con una diffusione di massa dal 1996 grazie anche alla liberalizzazione del mercato.

Oggi con le auto sostenibili siamo al 1995 della telefonia, con la differenza che se da un lato abbiamo la competizione di mercato tra le case automobilistiche, dall’altro lato ci manca l’infrastruttura di ricarica. Ossia il corrispettivo dei ponti radio in telefonia.

«Il mercato automobilistico va bene e per questo motivo abbiamo deciso di non incentivare il settore. ha proseguito Perrella – Se mai dovremmo riuscire a incentivare le fasce più deboli, ossia coloro che ancora viaggiano sugli Euro 0 e 1. E bisogna anche considerare il fatto che ci sono più vantaggi ambientali nel passaggio da un Euro 0 a un Euro 6 che da quest’ultimo a un veicolo elettrico. Per quanto riguarda le scelte sui combustibili ci sono delle differenze e vanno trattati in maniera diversa, ma non abbiamo ceduto alle pressioni esterne che volevano tenere fuori l’idrogeno».

I sindacati di categoria hanno fatto il punto sui rispettivi punti di vista. «Overcapacity e prezzo basso del petrolio stanno frenando le rinnovabili, ma noi che abbiamo solo il 14% della generazione elettrica che usa il carbone possiamo uscirne. ha detto il segretario generale della Filctem Cgil, Emilio Miceli – Ma lo scenario in Italia punta sul gas. Eni è concentrata sul gas e ciò influenza tutto il nostro panorama energetico. Nel nostro paese come investimenti sulle rinnovabili non vediamo niente».  

«Quando sarà finita la discussione sulla transizione energetica ha detto Alessandro Rocchi, segretario generale della Filt Cgil – ossia quando questo cambiamento sarà un dato di fatto, allora i lavoratori dei trasporti dovranno essere pronti a svolgere un nuovo tipo di impiego».

«La politica deve misurarsi con il mercato e la sfida della modernità deve essere raccolta, ma non come è stato fatto con altre, quali quella del federalismo ha detto Umberto Del Basso De Caro, sottosegretario del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti – Ancora prima della mobilità sostenibile, vedo urgente il diritto alla mobilità, che rimanda a un modello di democrazia e modifica gli stili di vita. E su questo fronte abbiamo ancora molto da fare visto che il 50% delle interrogazioni che ci arrivano da parte dei parlamentari riguarda il Tpl».

Le conclusioni dell’appuntamento le ha fatte il segretario confederale della Cgil, Franco Martini che ha posto alcune questioni.

«Che c’entra il sindacato in tutto ciò? si è chiesto Martini C’entra perché all’interno di questa discussione ci sono persone in carne e ossa che noi rappresentiamo e anche perché in questa problematica che investe tutta la società c’è un’idea di futuro e del paese che deve interessare al sindacato. Certo, per la nostra natura dobbiamo trovare un equilibrio tra un eccesso di realismo e un eccesso di innovazione e abbiamo il compito di trovare un’istanza tra i tempi brevi dei cambiamenti del mondo e quelli lunghi della consapevolezza diffusa. E il sindacato deve essere un protagonista di ciò».

L’impressione è che se da un lato il sindacato a livello centrale si ponga i problemi dell’innovazione e del lavoro con una prospettiva che inizia a essere sistemica di fronte ai cambiamenti di oggi, le categorie debbano ancora lavorare per arrivare a questo punto.

E del resto questa prospettiva fa fatica anche ad essere adottata dal governo visto che “prende atto” di un accordo tra aziende, rinunciando così a un ruolo più importante della politica. Ossia quello d’indirizzo al di sopra delle parti, per il bene generale.

C’è da dire però che una novità questa volta c’è. «Apprezziamo il lavoro che è stato fatto sul recepimento della direttiva che è stato interdisciplinare», ha concluso Miceli. Vista la trasversalità della questione mobilità l’interdisciplinarietà dovrebbe essere la base, di fronte alla complessità, ma si tratta di una qualità che abbiamo visto molte volte mancare nelle azioni di governo.

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