Come la Brexit potrà influenzare la lotta al global warming

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Quali saranno le conseguenze sulla politica energetica e ambientale del Regno Unito e dell'UE della vittoria del "leave"? Cosa cambierà nelle strategie europee e internazionali di lotta ai cambiamenti climatici? Quale sarà l’effetto del Brexit sul Paris Agreement? L'analisi di Lorenzo Ciccarese.

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Alla vigilia del referendum erano montate molte preoccupazioni sulla equivalenza tra Euro-scettici e scettici delle politiche climatiche e negazionisti dei cambiamenti climatici, tanto che è stato introdotto per loro il neologismo clurosceptic.

All’indomani dell’esito referendario è intervenuta Amber Rudd, ministra per l’energia e i cambiamenti climatici del governo Cameron, ad assicurare l’impegno della leadership del partito conservatore a rispettare sia l’Accordo di Parigi (a cominciare dalla sua ratifica) e del Climate Change Act, la legge emanata nel 2008 che prevede una riduzione dell’80% delle emissioni di gas serra rispetto ai livelli del 1990, entro il 2050.

Vedremo nelle prossime settimane quali saranno gli orientamenti del nuovo gabinetto di Londra su energia e clima. 

Intanto alcuni membri conservatori della Commissione Parlamentare sui cambiamenti climatici hanno chiesto una revisione della strategia di lotta al caos climatico approvato dal governo precedente, mentre il nuovo ministro dell’energia Andrea Leadsom ha inaugurato la sua carriera di ministro dell’energia con la domanda: “Is climate change real?”:

Un secondo dilemma riguarda l’influenza che la vittoria del “leave” potrà avere sulle strategie climatiche dell’UE.

Complessivamente l’UE è responsabile del 12% delle emissioni globali di gas serra ed è il terzo emettitore mondiale, dopo Cina e USA. Lo scorso dicembre l’UE, all’unanimità, ha approvato l’Accordo di Parigi. Questo, per entrare in vigore, richiede la ratifica di almeno 55 Paesi che complessivamente totalizzino almeno il 55% delle emissioni mondiali di gas serra. 

La ratifica formale dell’accordo avviene attraverso le proprie procedure nazionali, più o meno complicate.

Alcuni Paesi membri dell’UE, tra cui la Francia, hanno già avviato il processo di ratifica. Altri dicono di voler conoscere prima i dettagli degli obiettivi climatici UE per il 2030 prima di iniziare o concludere il loro processo di ratifica.

D’altra parte, di fronte al segretariato della Convenzione sui Cambiamenti Climatici, ogni singolo Paese è responsabile del proprio target. Anche per questo l’UE – che potrebbe ratificare gli impegni di Parigi senza attendere le singole ratifiche nazionali – intende giungere a una ratifica del Paris Agreement da parte del Parlamento UE solo dopo che tutti i Paesi lo hanno fatto.

Il voto referendario di fine giugno complica tremendamente le cose e l’Unione si trova a dover attendere la conclusione formale del processo di Brexit. Insomma, potranno passare mesi, forse anni, per avere la ratifica dell’UE.

Una volta che l’articolo 50 del trattato UE di Lisbona sarà attivato, cosa che secondo alcuni leader politici potrebbe avvenire entro la fine del 2017, partirà il processo di negoziazione, che si concluderà presumibilmente dopo due anni. Un tempo troppo lungo per un Accordo che intende dare risposte certe e rapide al clima che cambia.

Una seconda preoccupazione riguarda l’indebolimento delle ambizioni climatiche dell’UE.

La Gran Bretagna è stata sempre un leader all’interno del blocco UE rispetto alle strategie internazionali lotta al riscaldamento globale, fornendo un contributo chiave agli aspetti scientifici e negoziali.

Il Brexit renderà più complicate le dinamiche all’interno dell’Unione e più influenti le argomentazioni di quei Stati membri, soprattutto di recente ingresso, che vogliono tagli più lenti e più deboli delle emissioni dei gas serra.

Altro aspetto: l’UE ha assunto un impegno formale davanti alle Nazioni Unite di ridurre ‘congiuntamente’ le emissioni dei suoi 28 Paesi membri del 40% al di sotto dei livelli del 1990, entro il 2030. Con l’uscita della Gran Bretagna si apre il complesso problema della ridefinizione dell’effort-sharing, ossia della ripartizione degli impegni di riduzione delle emissioni, tra i Paesi dell’UE senza Gran Bretagna.

Infine, resta da capire come si comporterà il Regno Unito all’interno del negoziato UNFCCC e delle politiche climatiche: agirà all’interno dello spazio UE o al di fuori di esso, come una nazione a sé?

Il Regno Unito potrà decidere di agire, per esempio, come la Norvegia. Pur non essendo un Paese membro dell’UE, il Paese scandinavo fa parte dello spazio economico europeo.

La Norvegia, nel suo impegno di riduzione delle emissioni comunicato alle Nazioni Unite, ha accettato lo stesso obiettivo di riduzione dell’UE, impegnandosi a rispettare “questo impegno attraverso una posizione collettiva con l’UE e dei suoi Stati membri”. Nel caso in cui non vi fosse un accordo su una posizione comune con l’UE, la Norvegia “soddisferà l’impegno come singolo Paese”.

La seconda strada prevede che il Regno Unito operi completamente al di fuori dell’UE, come uno nazione a sé e, di conseguenza, presentare un proprio impegno di riduzione.

Anche se non è facile costruire scenari sul futuro delle politiche climatiche nazionali e internazionali, è ragionevole ritenere che la vittoria del leave in Gran Bretagna possa deprimere l’entusiasmo e lo slancio che la comunità internazionale aveva trovato a Parigi. 

D’altra parte va detto che sia la Cina sia gli Stati Uniti si sono impegnati a ratificare il Paris Agreement entro l’anno.

Questo significa che l’accordo ha buone possibilità di superare la soglia 55/55 e diventare operativo entro breve tempo, senza aspettare che l’UE abbia risolto i propri affari interni e che la Gran Bretagna abbia deciso che seguito dare al Brexit.

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