Dal referendum ad una politica energetica green

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Il referendum sulle trivellazioni deve diventare l’occasione per riflettere sulle scelte e le mancate scelte del governo. Di fronte ai cambiamenti in atto lascia increduli la mancanza di strategia dell'esecutivo e la sua ostilità nei confronti delle rinnovabili. Eppure ci sarebbe tanto da fare a cominciare da edilizia e trasporti. L'editoriale di Gianni Silvestrini.

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Non sappiamo se il governo riuscirà ad evitare il referendum sulle trivellazioni. Se così fosse, sarebbe un’occasione persa per il paese. Si impedirebbe infatti un vero dibattito sulla politica energetica che potrebbe evitare all’Italia di avvitarsi su scelte miopi e senza futuro. 

Ricordiamo il precedente del 2011, quando il “no” al nucleare con il 94% dei voti riuscì a bloccare per tempo una scelta che avrebbe fatto bruciare al paese miliardi di euro per impianti atomici che non sarebbero mai stati completati, in un contesto di sovraccapacità produttiva e domanda elettrica calante. E che salvò, tra l’altro, l’Enel dal rischio di diventare una “bad company”.

Anche oggi dobbiamo tornare a riflettere e ritrovare una prospettiva vincente. E non soltanto sullo specifico delle trivellazioni, ma sulle scelte più complessive. Siamo infatti di fronte ad una mancanza di strategia francamente incomprensibile, dopo la conferenza sul clima di Parigi e le scelte di decarbonizzazione che molti paesi stanno compiendo.

Ricordiamo che nell’ultimo mese la Germania ha annunciato un piano per uscire dal carbone e ha rinnovato gli incentivi per l’accumulo abbinato al fotovoltaico (dopo il successo di 20.000 batterie installate nel 2015). Gli Usa hanno rinnovato per cinque anni gli incentivi al solare e all’eolico, la Cina ha bloccato la costruzione di nuove miniere di carbone e ne ha chiuse mille. Ed è probabile che l’Europa alzerà gli obiettivi al 2030 su efficienza e rinnovabili (il Parlamento europeo ha già chiesto di portare dal 27% al 40% il target dell’efficienza).

Da noi, invece, prosegue una politica di caparbia ostilità per le rinnovabili e l’efficienza energetica. Si sono bloccati investimenti per centinaia di milioni di euro, alimentando un enorme contenzioso presso i Tar. E i continui interventi retroattivi hanno fatto perdere credibilità al sistema Italia.

Nei prossimi due anni l’incremento di energia verde sarà praticamente azzerato, come ha sottolineato anche il Coordinamento FREE.  In compenso, però, vogliamo trivellare.

Anche questa scelta va analizzata con la lente climatica, aldilà di tutte le obiezioni sui rischi e gli impatti ambientali. Rispetto all’intempestività delle ricerche in una fase di bassi prezzi del petrolio, si risponde che vale comunque la pena di avviare oggi le prospezioni per poi trivellare in un futuro quando il paese ne avrà bisogno.

È un ragionamento che poteva valere dieci anni fa, quando l’ipotesi di un’evoluzione verso prezzi molto elevati era plausibile. L’attuale prospettiva è diversa, perché la domanda di petrolio è sempre meno forte ed è possibile che si arrivi ad un picco dei consumi entro un decennio.  Inoltre, è molto concreto il rischio di non poter utilizzare le riserve conosciute, proprio a causa dell’emergenza climatica. Del resto, la decisione saudita di mantenere alta la produzione è legata, tra le altre motivazioni, anche al pericolo di dover lasciare nel sottosuolo gigantesche quantità di greggio, e perdere così migliaia di miliardi di dollari.  

Ma tornando all’Italia, alcuni commenti di Leonardo Maugeri, già responsabile delle strategie dell’Eni, sono chiarificatori. “l’Italia ha una dotazione molto modesta di idrocarburi. Le uniche riserve di una certa consistenza si trovano nell’Alto Adriatico (gas naturale) e Basilicata (petrolio). Per il resto parliamo di piccoli giacimenti che in nessun modo potrebbero contribuire a rendere l’Italia meno dipendente dal petrolio e dal gas importati. E quando la trivellazione ha per oggetto formazioni dalle prospettive modeste rischia di diventare una sorta di accanimento  contro il sottosuolo e l’ambiente“.

Peraltro va chiarito che il petrolio che viene estratto non è “nostro”, come spesso si legge, ma è immesso sul mercato a cui accediamo noi, esattamente come i tedeschi o i greci. 

Ecco, allora, che il referendum può rappresentare l’occasione per riflettere sulle scelte e le mancate scelte attuali.

A partire dall’assenza di una strategia climatica che indichi come raggiungere gli obiettivi al 2030 legandoli alla battaglia sull’inquinamento delle città, al rilancio dell’agricoltura, alla creazione di un’industria agganciata alle tecnologie green; o di una riflessione sui percorsi necessari per decarbonizzare l’economia al 2050, senza la quale si rischiano colossali investimenti, “stranded”, totalmente inutili.

Insomma, la sensazione è che manchi la percezione di come il mondo stia cambiando. Citiamo due soli esempi: l’edilizia, dove occorrerebbe passare dalle riqualificazioni di singoli appartamenti, alla “deep renovation” di interi edifici e quartieri, con riduzioni dei consumi del 60-80%; o il settore dei trasporti che vede all’orizzonte un boom della mobilità elettrica rispetto al quale l’Italia non si sta attrezzando né per incoraggiare la domanda, né per sostenere l’avvio di una produzione nazionale. E si potrebbe continuare a lungo.

Ecco perché l’avvio di una seria valutazione sulle opportunità aperte dopo Parigi sarebbe importante. Per superare l’incredibile cappa di silenzio dei media e la mortificante inerzia del governo. E per ridare un respiro strategico alle politiche energetiche, industriali, agricole, dei trasporti e dell’edilizia. Insomma, per ripensare un modello di sviluppo che si è inceppato.

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