Cop21, accordo in bianco

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Con questo accordo abbiamo di fronte 85 anni lastricati di condizionali e buone intenzioni, mentre la CO2 incalza al ritmo di 2 ppm l’anno, siamo a 401 ppm e la comunità scientifica ci dice che 450 ppm sono il “punto di non ritorno”. Ma possiamo cambiare marcia senza aspettare la CoP: bisogna tornare a fare politica dal basso. L'analisi di Sergio Ferraris.

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Abbiamo un accordo sul clima. E ora cosa succede? A questa semplice domanda che in molti si stanno ponendo all’indomani della Cop21 non c’è risposta. Già perché da oggi al 2023, saranno ben poche le cose che accadranno sul fronte delle emissioni climalteranti.

E dopo, tutto sarà demandato alla “buona volontà” degli Stati circa l’ulteriore diminuzione delle emissioni di ognuno, con la consapevolezza che se non riusciranno a centrare l’obiettivo che si sono dati non ci saranno conseguenze al di là della pacca sulla spalla. È questa, ci sembra, la dinamica dello “storico” accordo sul clima adottato nella fase finale delle Cop21 alle 19.26 del 12 dicembre a Parigi.

Un punto e basta

Il documento d’altro canto un punto lo fissa. Quello cioè di contenere l’aumento della temperatura media della Terra a fine secolo «molto al di sotto» dei 2°C – oggi siamo già a quota +1°C – tendendo a raggiungere i 1,5°C. Tutto qui. Questa è la confezione di un “successo” che è stato pensato fin dall’inizio come un’abile operazione di marketing climatico, per offrire una narrazione all’opinione pubblica mondiale positiva e d’attenzione rispetto le questioni climatiche senza intaccare per nulla gli scenari economici ed energetici odierni e anche per i prossimi decenni.

Con un accordo che sfida anche la scienza. Gli INDCs (Intended Nationally Determined Contributions), ossia gli obbiettivi volontari dei singoli paesi in materia di riduzione della CO2 presentati – la vera invenzione e chiave del “successo” di Cop 21 – sono già stati giudicati insufficienti dalla comunità scientifica poiché punterebbero a una temperatura di 2,7°C, ragione per la quale se a oggi è legittimo mettere in dubbio il target dei 2°C quello dei 1,5°C diventa un vero e proprio specchietto per le allodole.

E qui si fermano i contenuti salienti dell’accordo, cosa che ha fatto dire a George Monbiot dalle pagine del Guardian che «il fallimento non appartiene ai colloqui di Parigi, ma a tutto il processo».

Parola di James

Parigi è quindi la chiusura di ciclo nel quale si è provato per ben due decenni ad affrontare i cambiamenti climatici, mentre James Hansen, lo scienziato della Nasa che nel 1988 lanciò l’allarme sui cambiamenti climatici, definisce l’accordo in maniera netta: «Si tratta di una frode, un falso, nessuna azione e solo promesse».

Il massimo però si tocca con il picco delle emissioni che deve essere raggiunto, secondo il testo «as soon as possible», ossia il prima possibile, mentre il bilanciamento tra emissioni climalteranti emesse e assorbite dovrà essere raggiunto nella seconda metà del secolo e ciò potrebbe accadere tra il 2051 e il 2099.

Ma fate attenzione. Nella seconda metà del secolo si potranno utilizzare, secondo l’accordo, fonti fossili ma si dovrà sequestrare nel frattempo la CO2. Una bella differenza rispetto all’utilizzo dal 2050 del 100% di fonti rinnovabili che del resto sono citate una sola volta come ausilio per l’accesso all’energia per l’Africa, mentre carbone, petrolio e fossili non sono proprio nominati.

Tutte cose che ratificano, se ce ne fosse bisogno la “non ingerenza” della Cop 21 nelle politiche energetiche e che hanno fatto infuriare Naomi Klein. Mentre all’uscita della bozza di giovedi 10 dicembre, quella che ha levato le percentuali di riduzione riscrivendo tutto rispetto a quelle precedenti l’Ong 350.org scriveva: «Il linguaggio della diplomazia piega quello della scienza».

Arsenale fossile

Si potrebbe ancora andare avanti, ma ciò che è necessario analizzare sono i contesti esterni alla Cop21. Venerdì 4 dicembre, due giorni prima del round decisivo del vertice parigino, l’Opec ha deciso di non diminuire la produzione petrolifera con il risultato di aver fatto sprofondare il prezzo del barile a 38 dollari, dando un segnale chiaro circa il fatto che il petrolio è abbondante e può diminuire di prezzo, mentre nel frattempo, secondo il “Guardian”, non sono pochi i soggetti che si stanno preparando a un lungo periodo di barili scambiati a 20 dollari l’uno.

E in questo quadro l’aver eliminato giovedì 10 dicembre la parte in cui si parlava di una riduzione delle emissioni tra il 40 e il 95%, valori che avrebbero obbligato l’industria dei fossili a una vera stretta sui consumi fossili è sembrato quasi sinergico. Nel frattempo è arrivata la notizia che l’Arabia Saudita, grande protagonista, in negativo, della Cop 21, starebbe studiando la possibilità di reiniezione della CO2 (il controverso sistema Ccs) nel giacimento petrolifero di Ghawar, il più grande del mondo, per compensare il calo di produzione, cosa che si sposa alla perfezione con il concetto il bilanciamento tra i gas serra emessi e quelli sequestrati.

Insomma mentre le fonti fossili stanno mettendo a punto l’arsenale contro le rinnovabili – che continuano a correre anche senza politiche specifiche – si plaude all’accordo che inverte la logica fino a oggi seguita e si definisce un obiettivo, senza mettere a punto gli strumenti per realizzarlo, ponendo al centro gli interessi economici e politici, determinanti nella dinamica di Cop 21, rispetto alla difesa del clima.

La sintesi di ciò risiede in un concetto che si sta sentendo molto in questi giorni, anche tra gli ambientalisti: per un accordo, è stato necessario scendere a compromessi. Ma il problema è che il compromesso è stato tale che abbiamo si un accordo, ma vuoto.

Figli del Wto

Altra questione è la “fiducia” nella politica. Si dice che bisogna avere fiducia nella politica che sarà in grado di mettere a punto la strategia assente. E forse chi lo afferma, e sono parecchi anche in questo caso gli ambientalisti, è figlio di un’altra politica: quella di Rio 1992.

L’accordo di Rio, che gettò le basi per il Protocollo di Kyoto, era figlio a livello ambientale di Cernobyl, del Protocollo di Montreal sull’ozono – quello si funzionante ed efficace nel quale non ci si vergognò d’usare il verbo “bandire” – di Bophal e di tre decenni di riflessioni e dati sull’ambiente, a cominciare al Rapporto del Club di Roma, mentre sul versante sociale apparteneva al crollo del Muro di Berlino e a una politica non ancora succube alla finanza. E quella politica oggi non esiste più.

Cop 21 è figlia degli ultimi quindici anni – gli stessi che hanno bloccato Kyoto – fatti di una politica prona alla finanza, del Wto, di un sistema finanziario ormai fuori controllo da parte delle nazioni e della politica, d’istituzioni sempre più aliene ai cittadini, come la Commissione Europea, di una forbice sociale che in soli quindici anni ci ha portato indietro di un secolo sul fronte della redistribuzione del reddito come afferma Thomas Piketty. O, peggio, di accordi clandestini e decisi in stanze segrete come il Ttip.

E ci si dovrebbe fidare di questa politica solo per il fatto che il 12 dicembre 2015 a Parigi ha riconosciuto il problema dei cambiamenti climatici, noto da oltre venti anni? No. Anche perché oggi abbiamo di fronte 85 anni lastricati di condizionali e buone intenzioni, mentre la CO2 incalza al ritmo di 2 ppm l’anno, siamo a 401 ppm e la comunità scientifica ci dice che 450 ppm sono il “punto di non ritorno”.

E tutto ciò mentre la Iea, l’Autorità internazionale per l’Energia, nel 2011, ha dato la notizia che nel 2017 si sarebbe esaurito lo stock della CO2 disponibile al 2030 per il contenimento della temperatura nel limite dei 2°C, per cui all’epoca della prima verifica del 2023, per la CO2 saremmo già nel 2036. Quindi stiamo accumulando ritardi e stock di CO2 nell’atmosfera imponendo alle generazioni future, se vogliamo restare nei 2°C, sacrifici sempre più pesanti, dei veri e propri derivati climatici mentre l’equità intergenerazionale nell’accordo sta solo nel preambolo.

Senza contare che potrebbero sempre presentarsi “sorprese” quali quella dell’Ufficio di statistica del Governo cinese che ha candidamente ammesso qualche settimana fa di essersi dimenticato negli ultimi quattro anni di contabilizzare “solo” il 16% dei consumi annui di carbone del gigante asiatico.

E poi c’è ciò che si muove nel sottobosco. Durante l’assise di Parigi l’“Independent” ha pubblicato il documento interno riservato, inviato dalla Commissione europea ai delegati europei della Cop 21, dove in maniera netta si dice che in nessun modo la trattativa di Parigi avrebbe dovuto toccare il commercio internazionale, tutelando così i prodotti petroliferi più “problematici” come, per esempio, quelli provenienti dalle sabbie bituminose del Canada e mettendo oltretutto una serissima ipoteca su una’eventuale carbon tax.

Come rispondere?

Quindi dobbiamo abbassare le testa e subire? La risposta è no. Il mondo della politica ambientale e sociale oggi è di fronte a due opzioni. La prima è quella di continuare a seguire il processo delle varie Cop nella “speranza” che arrivino azioni efficaci sul fronte climatico e magari sociale, mentre il “contesto” sarà ostile e forse sarà portato alla ribalta dell’opinione pubblica il clima ogni cinque anni.

Mentre la seconda è quella di svincolarsi dall’abbraccio mortale delle Cop e dettare l’agenda del clima avendo come referenti non i notabili dei governi, ma i cittadini. Oggi è possibile perché l’informazione riesce a valicare i confini e perché la prossima generazione sta già rispondendo alla chiamata nei fatti, sostituendo la logica del possesso con quella dell’accesso.

Il compito degli ambientalisti, ora, è quello d’ignorare la contiguità con questa politica e selezionare in maniera accurata quel personale politico che mette in atto da oggi azioni virtuose per il clima. Ma non solo. Chi si occupa d’ambiente dovrà parlare altri linguaggi, percorrere altre strade e modificare i propri punti d’osservazione, imparando anche da altre crisi, come quella economica e sociale, e non solo da quelle ambientali, allargando al tempo stesso i contesti d’analisi anche perché crisi climatica e crisi ambientale si sono ormai saldate, come afferma il compianto Luciano Gallino.

E non sarà un lavoro semplice, perché da parte di questa politica per alcuni decenni, ci sarà da aspettarsi al massimo indifferenza se non ostilità, come succede, per esempio, da parte dell’Unione Europea sull’efficienza energetica. Dalla parte del clima, però, si trovano alcune imprese che già ora fanno e sviluppano le rinnovabili che sono e saranno in crescita per conto loro, indipendentemente dalle Cop.

E sarà faticoso, perché bisognerà tornare a fare politica dal basso come una volta, negli anni ‘50, dove un’intera generazione ha sacrificato tempi di vita, relazioni e affetti, faticando, per consentire a noi di godere di un benessere senza pari nella storia dell’umanità. Ora tocca a noi rendere il favore che abbiamo ricevuto. Da oggi. E ce la possiamo fare

(Articolo pubblicato anche su La Nuova Ecologia)

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