Sblocca Italia e inceneritori, perché bruciare i rifiuti non è la soluzione

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Lo schema di decreto attuativo sull’art. 35 dello Sblocca Italia ha rilanciato il dibattito sugli inceneritori. Secondo il Governo sono indispensabili per evitare procedure d’infrazione europee. Tuttavia l’esperienza insegna che ci sono vie diverse da percorrere, puntando su prevenzione, raccolta differenziata, riciclo e pretrattamento “a freddo”.

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Tra le molteplici storture della politica energetica italiana più recente (come la volontà di estendere la ricerca di petrolio e gas nei nostri mari), il Governo Renzi ha partorito un’altra idea anacronistica: costruire nuovi inceneritori. In queste settimane è partito un dibattito sullo schema di decreto per attuare l’art. 35 del decreto Sblocca Italia.

In ballo c’è la realizzazione di dodici impianti sulla nostra Penisola, con cui coprire il “fabbisogno residuo” di trattamento dei rifiuti solidi urbani. Uno di questi inceneritori è previsto in Liguria, una regione che sta vivendo un’emergenza in piena regola per lo smaltimento della spazzatura. La raccolta differenziata è bassissima (30% in media) e le discariche sono a tappo, tanto da aver costretto Genova a stringere accordi temporanei con diversi capoluoghi, per bruciare la rumenta ligure a Torino, Piacenza e in altre città.

È davvero utile e necessario investire in nuova capacità d’incenerimento? Abbiamo discusso sul tema con Enzo Favoino, tecnico e ricercatore presso la Scuola agraria del Parco di Monza, esperto riconosciuto a livello internazionale sulla gestione dei rifiuti (in allegato in basso anche una nota critica di Favoino ed altri tecnici)

Il dietrofront della Danimarca

Lo schema di decreto, spiega Favoino, contiene una premessa giusta: bisogna evitare le procedure d’infrazione europee per il mancato rispetto dell’obbligo di collocare in discarica soltanto materiale pretrattato. Il documento, però, è improprio e contraddittorio in vari punti. L’Europa, infatti, ha avviato le procedure contro l’Italia non perché da noi manchino gli inceneritori, ma per l’assenza degli impianti di trattamento.

Apriamo una breve parentesi su quei Paesi scandinavi, tipo Svezia e Danimarca, che bruciano moltissima spazzatura e sono spesso considerati modelli virtuosi. In realtà, evidenzia Favoino, la Danimarca ha avviato una strategia d’uscita dall’incenerimento spinto, puntando anche sulla raccolta del rifiuto organico. L’obiettivo è raggiungere e poi superare quel 50% di recupero netto di materia previsto dalle norme Ue (ciò implica un buon 65% di raccolta differenziata). Finora i danesi si sono limitati a recuperare almeno il 50% di plastica, vetro e metalli. Peraltro Bruxelles sta predisponendo obblighi ancora più severi nel suo pacchetto legislativo sull’economia circolare: si parla di portare il riciclaggio al 70% entro il 2030, che significa differenziare almeno l’80% della spazzatura urbana prodotta in ciascun Paese.

Incenerire vs riciclare

Secondo Favoino, la storia della “discarica-zero” grazie all’incenerimento è una bugia, perché rimane un 25% circa di scorie e ceneri da smaltire in un deposito tradizionale. «Gli svedesi sono stati bravi a fare un’operazione di marketing», afferma quindi il ricercatore del Parco di Monza. «In realtà, l’incenerimento irrigidisce l’intero sistema della gestione rifiuti e confligge con gli obiettivi di riciclo».

Il motivo è presto detto: gli impianti, una volta costruiti, devono funzionare per almeno 20-30 anni ed essere alimentati da una quantità costante di spazzatura. Altrimenti l’investimento non si ripaga. Tanto che in molti casi i contratti prevedono delle clausole “vuoto per pieno”. Il paradosso è che se i comuni inviano agli inceneritori meno rifiuti residui di quelli previsti, perché nel frattempo hanno incrementato la percentuale di raccolta differenziata, devono pagare delle penali milionarie. Oppure quegli stessi comuni sono costretti a rallentare i programmi di raccolta domiciliare, contravvenendo all’obbligo di legge del 65%. Come avvenuto a Torino, sostiene Favoino, dopo l’attivazione dell’inceneritore del Gerbido.

L’esempio di Treviso

La strada da seguire, secondo l’esperto della strategia “rifiuti zero”, è diametralmente opposta a quella prospettata dallo schema di decreto attuativo. Innanzitutto, bisogna ridurre la mole di rifiuti prodotti, anche attraverso misure per abbattere gli sprechi alimentari e riprogettare gli imballaggi. I passi successivi sono il ritiro “porta a porta” con tariffazione puntuale, secondo il numero di sacchi conferiti; così è possibile arrivare a un buon 80-85% di raccolta differenziata.

«L’esempio più clamoroso – spiega Favoino – è l’esperienza di Treviso. Il Consorzio Contarina gestisce i rifiuti di 50 Comuni della provincia, compreso il capoluogo, coinvolgendo oltre 550.000 abitanti. La differenziata si attesta sull’85% e la media di rifiuto secco residuo per abitante/anno è pari a soli 50 kg. L’obiettivo è scendere ad appena 10 kg nel 2023».

Secondo Favoino, conviene poi investire in impianti di pretrattamento “a freddo” con recupero di materia. Costano tre-quattro volte meno di un inceneritore (il costo d’investimento è 300-500 €/tonnellata l’anno, contro 1.000-1.500 €/tonnellata), sono più veloci da costruire e, soprattutto, sono molto più flessibili, perché combinano due operazioni: selezione meccanica dei volumi residui e stabilizzazione biologica. Il loro principale vantaggio, quindi, è che sono convertibili in impianti in grado di operare direttamente sui materiali provenienti dalla raccolta differenziata, incluso l’organico per poi ottenere compost. Questo tipo di pretrattamento, in sintesi, può andare a braccetto con le buone pratiche del ciclo dei rifiuti, cioè riduzione, raccolta domiciliare e riciclo, al contrario di un inceneritore.

Nota critica di Favoino e di altri tecnici sullo schema di decreto applicatico dell’art.35 dello Sblocca Italia (pdf)

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