Il nuovo paradigma: trasformare l’economia per vivere nel tempo dei limiti

Gli equilibri climatici obbligheranno ad una profonda riconversione delle economie. Serve una transizione tecnologica, economica e sociale che implicherà una revisione dei meccanismi di funzionamento del capitalismo. Una sfida enorme, dai risultati incerti, che potrebbe però essere favorita anche dalla fase di evoluzione tecnologica in cui siamo recentemente entrati.

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Il capitalismo ha avuto come sua ragion d’essere l’aumento continuo della crescita dell’economia. Anche il socialismo russo e quello cinese, all’insegna rispettivamente degli slogan “elettrificazione più soviet” e “non importa di che colore sia il gatto purché catturi il topo”, hanno perseguito una logica di aumento del Pil, scandita dagli obiettivi dei piani quinquennali.

Ma il ventunesimo secolo porta con sé problemi nuovi, che esigono risposte differenti. La popolazione raggiungerà il suo massimo, alcune risorse come cibo, acqua, petrolio, diversi minerali, diventeranno sempre più difficili da ottenere. Ma, soprattutto, l’uomo dovrà fare i conti per la prima volta con un limite autoimposto, la necessità di contenere la produzione di gas climalteranti.

Se la storia passata ha visto la rovina di intere popolazioni di fronte a limiti mal gestiti (i Maya, i Vichinghi, gli abitanti dell’Isola di Pasqua, ecc.) (Diamond Jared, “Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere”, Einaudi 2005) nella storia recente molte difficoltà sono state superate grazie ad innovazioni sempre più sorprendenti ed efficaci. E c’è da aspettarsi che nei prossimi decenni le straordinarie potenzialità come descritte nel libro “2 °C“, dalla rivoluzione digitale a quella dell’uso delle risorse, contribuiranno ad affrontare le varie criticità. Salvo una, la concentrazione di gas climalteranti in atmosfera, che richiederà un approccio radicalmente nuovo.

Questo vincolo, che non era stato esplicitamente considerato nei “Limiti dello sviluppo” del 1972 (Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jorgen Randers, William W. Behrens III (1972), The Limits to Growth. New York, Universe Books. Traduzione italiana: I limiti dello sviluppo, Milano, Mondadori, 1972), avrà un effetto profondo sulle economie. Nel corso dei secoli, a parte i casi citati di scomparsa di intere civiltà, il raggiungimento di un limite (risorse idriche, boschive, prodotti agricoli …) ha determinato lo spostamento delle popolazioni alla ricerca di habitat più consoni, magari strappandoli a chi già vi abitava, o ha stimolato innovazioni in grado di superare le difficoltà.

Gli equilibri climatici, per la prima volta nella storia dell’uomo, obbligheranno ad una profonda riconversione delle economie perché non possiamo pensare realisticamente di spostarci su un altro pianeta. Fortunatamente, come si è detto, siamo entrati in una fase di evoluzione tecnologica di tale portata da lasciare intravvedere la possibilità di una transizione virtuosa, naturalmente con caratteristiche molto differenziate nei vari paesi.

Certo il rallentamento della crescita esponenziale delle emissioni climalteranti, registrata negli ultimi decenni, e la successiva spinta ad una loro forte riduzione rappresentano una sfida di dimensioni colossali, difficile da vincere se la rivoluzione digitale non sarà accompagnata da altre decisive trasformazioni.

Pensiamo alle dinamiche che s’innescano in un’economia di guerra. Cambiano i modelli comportamentali, aumentano i vincoli di solidarietà, s’impongono nuove regole. Analogamente, la consapevolezza dell’esistenza di un limite insuperabile, quello sulle emissioni, potrebbe indurre mutamenti profondi nel funzionamento delle società. Ma la necessità di introiettare il concetto del limite non deve essere intesa in senso “pauperistico”. Per fare un esempio, le giornate senz’auto che hanno visto il coinvolgimento di molte centinaia di città italiane ed europee all’inizio del secolo, hanno fatto riscoprire a milioni di abitanti la bellezza delle città liberate dalle auto.

Un altro elemento determinante sarà l’ampliamento dell’economia informale, di quegli spazi dei “beni comuni collaborativi” citati da Rifkin nel suo ultimo libro (L. Rifkin, “La società a costo marginale zero”, Mondadori, 2014) che, se ben gestiti, potrebbero garantire un maggiore equilibrio sociale. Se l’economia di guerra lo ottiene livellando verso il basso, la consapevolezza interiorizzata del limite può indurre una gestione più condivisa dei beni naturali e avviare cambiamenti comportamentali in grado di garantire un benessere equilibrato.

Alla luce di queste considerazioni, prende forma l’idea di una transizione tecnologica, economica e sociale – che potrebbe implicare anche una revisione dei meccanismi di funzionamento del capitalismo. Più volte infatti si è indagata la possibilità di una gestione diversa delle regole del capitale per tenere conto di vincoli ambientali, come hanno fatto Lovins e Hawken in “Capitalismo Naturale” (Amory Lovins, L. Hunter Lovins, Paul Hawken, Edizioni Ambiente, 2001).

Non è certo un’evoluzione scontata. A fronte della necessità di scelte drastiche nel contenimento delle emissioni, va sempre considerato il rischio che più si ritarderà nella definizione di strategie di riduzione delle emissioni, più severe saranno le misure da mettere in atto, fino all’introduzione di divieti destinati a limitare la libertà dei cittadini. Uno scenario preoccupante che può essere evitato accelerando le trasformazioni già avviate in vari settori dell’economia.

Nello scenario di decarbonizzazione, alcuni grandi poteri sono destinati a perdere la loro forza. Pensiamo alle multinazionali dei fossili, alle aziende elettriche, ma anche ad altri comparti industriali, come quello dell’auto. Il settore manifatturiero dovrà puntare a prodotti con caratteristiche diverse, come la maggior durata, e subirà trasformazioni strutturali, con una tendenza al decentramento delle lavorazioni.

La circolarità dei processi e la razionalità nell’uso di risorse sempre più difficilmente accessibili diventerà il nuovo quadro di riferimento. Questo modello sarà particolarmente utile per i paesi emergenti che potrebbero saltare interi passaggi impattanti e energivori, nella produzione energetica e nella manifattura, che hanno caratterizzato lo sviluppo delle economie industrializzate nel secolo scorso. Una possibilità tutt’altro che scontata, ma che in alcuni casi si sta già realizzando.

 

Questo articolo è un estratto dal libro di Gianni Silvestrini, “2 °C. Innovazioni radicali per vincere la sfida del clima e trasformare l’economia”, Edizioni Ambiente, febbraio 2015.

www.duegradi.it è il sito dedicato al libro. L’estratto è stato pubblicato con il consenso della casa editrice.

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