Lo Sblocca Italia e gli inceneritori diventati ‘strategici’

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Con il decreto Sblocca Italia si definiscono 'strategici', oltre alle trivellazioni petrolifere e alle infrastrutture per il gas, anche i 'termovalorizzatori'. Ma quanto ci servono questi impianti costosi e controversi per il loro impatto ambientale per raggiungere gli obiettivi europei in materia di rifiuti e portare la differenziata al 65% dei rifiuti solidi urbani?

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In Italia sta diventando tutto ‘strategico’. Con il decreto-legge n. 133 del 12 settembre 2014, meglio noto come Sblocca Italia, (qui sintesi e testo, ndr) godono di questa definizione, per esempio, le operazioni di ricerca e sviluppo di risorse petrolifere nazionali e ogni infrastruttura riguardante l’approvvigionamento e lo stoccaggio del gas naturale. Perché questa mania ‘strategica’? Perché se un impianto serve alla ‘strategia’ (ma quale?) del Paese, è evidente che interessi locali non si possono opporre alla sua realizzazione, visto che andrebbe contro il ‘bene superiore’ della collettività nazionale.

Così sorprende che lo Sblocca Italia abbia fatto diventare ‘strategici’ persino gli inceneritori di rifiuti, mentre l’unica vera strategia in fatto di RSU (rifiuti solidi urbani) è quella europea, che tratta questi impianti un po’ come “un male necessario”, mettendo al primo posto la riduzione della produzione di rifiuti, al secondo la raccolta differenziata e solo al terzo posto i termovalorizzatori (o alte forme di recupero energetico), preferiti solo alle discariche. Inoltre se l’Italia avesse veramente (i miracoli accadono) intenzione di rispettare le direttive europee, portando la quota attuale di raccolta differenziata del 41 al 65% dei  rifiuti solidi urbani (30 milioni di tonnellate in totale), i nuovi inceneritori, più che strategici, potrebbero diventare obsoleti. Situazione che si sta in effetti verificando in paesi come Svezia e Olanda, dove gli inceneritori, affamati dalla raccolta differenziata locale, oggi devono importare rifiuti dall’estero.

“In realtà, a parte il Nord, l’Italia è piuttosto lontana dai migliori esempi europei”, spiega a QualEnergia.it il professore di chimica dell’ambiente Luciano Morselli, dell’Università di Bologna. “Da noi il ricorso alle discariche è ancora altissimo, oltre il 40%, mentre in quei paesi sono state quasi eliminate. Quindi se vogliamo realizzare un sistema integrato di gestione sostenibile dei rifiuti, che comporti una drastica riduzione delle discariche, come previsto dall’Europa, degli inceneritori non si può fare ancora a meno. Anche perché bisogna considerare che è difficile spingersi oltre una quota di raccolta differenziata del 70-75% del totale dei rifiuti urbani e che non tutti i rifiuti raccolti in quel modo possono poi essere effettivamente recuperati: un 20-25% viene comunque scartato e avviato allo smaltimento, recupero energetico compreso”.

C’è poi da considerare che l’incenerimento dei rifiuti produce scorie solide pari a circa il 10% in termine di volume e al 20-25% in termini di peso dei rifiuti bruciati, oltre a ceneri per il 5%. Si tratta in gran parte di rifiuti speciali e come tali vanno stoccati in adeguate discariche.

Ma, ammesso si riesca a costruire in Italia un buon sistema di gestione dei rifiuti, per la parte “residua”, irrecuperabile, non basterebbero comunque i 45 inceneritori già esistenti? “Quegli inceneritori trattano solo il 17,2% di RSU, e lo 0,7% degli speciali, non sarebbero quindi sufficienti a pianificare anche al centro e sud un sistema integrato sostenibile. Inoltre quegli impianti si trovano quasi tutti al Nord, e molte realtà locali si oppongono all’importazione di rifiuti da altre zone d’Italia. Lo ‘Sblocca Italia’ può quindi essere uno strumento per sbloccare le azioni necessarie a realizzare un sistema di gestione sostenibile, che comprenda anche il recupero energetico. In questo sistema, hanno una parte importante anche i Combustibili Solidi Secondari, derivati cioè da rifiuti, che possono alimentare impianti energivori, come i cementifici, sostituendo i combustibili fossili”.

In realtà, proprio per permettere alle regioni più dotate di inceneritori di ‘aiutare’ quelle meno fornite, lo Sblocca Italia prevede una maggiore facilità di movimento dei rifiuti nel Paese, e specifica anche che gli impianti potranno lavorare a ‘saturazione termica’, cioè al massimo carico disponibile, azzerando il margine di circa il 30% finora tenuto. E questo, in effetti, ha già fatto insorgere il Governatore della Lombardia, Roberto Maroni, che teme un’invasione di rifiuti dal Sud.

“Questa transumanza dei rifiuti non dovrebbe proprio esserci, in effetti, in quanto ogni provincia dovrebbe creare i presupposti per smaltirsi in loco correttamente i propri rifiuti. Il problema è che al Nord hanno già tutto quello che gli serve per questo, alti tassi di raccolta differenziata, inceneritori e discariche. Molte regioni meridionali, invece, hanno finora usato essenzialmente solo le discariche, con i risultati che abbiamo visto in Campania e ora anche in Calabria, Sicilia e nella stessa Roma, via via che questi impianti si saturano e le popolazioni insorgono contro l’apertura di nuovi. Gli inceneritori, se non ci sono alternative, possono essere parte della soluzione in questi casi”.

Secondo Waste Strategy, il think-tank su rifiuti e riciclo di Althesys, però, puntare sulla differenziata, piuttosto che sugli inceneritori, non solo rispetterebbe di più la strategia europea, ma creerebbe anche molta più occupazione a costi inferiori. Per dimostrarlo hanno considerato due scenari di sviluppo della raccolta differenziata; uno che ottimisticamente prefigura che entro il 2020 si arrivi ai livelli chiesti dalla UE, l’altro che si continui invece con il graduale attuale aumento, giungendo comunque al 2020 a una riduzione del conferimento in discarica di 4 milioni di tonnellate di rifiuti, rispetto ai 15 milioni attuali interrati.

Nel primo caso si passerebbe dalle 68.300 persone impiegate nel settore della differenziata, a 195.000, cioè si avrebbero 126.700 nuovi posti di lavoro, con un investimento in nuovi impianti di compostaggio e separazione di 16 miliardi di euro. Nel secondo caso, invece, l’aumento di occupazione si fermerebbe a 89.000 posti di lavoro e gli investimenti a 8 miliardi di euro. In entrambi i casi, gran parte di occupazione e investimenti finirebbe al Sud, dove la raccolta differenziata è molto più indietro.

Visto che un inceneritore medio come quello di Parma, al centro di tante polemiche, costa sui 300 milioni di euro e brucia 130.000 tonnellate l’anno, impiegando poche decine di persone, sembrerebbe che per trattare quei 4 milioni di tonnellate di rifiuti tolti dalle discariche dalla differenziata, nello scenario “minimalista” di Althesys, usando termovalorizzatori, servirebbero circa 10 miliardi di euro di nuovi impianti con una occupazione molto minore. Mentre sarebbero molto maggiori le polemiche e gli scontri con le popolazioni locali, dovute ai dubbi sulle emissioni dalle ciminiere.

“In realtà – rassicura Morselli – gli impianti di nuova generazione, se ben gestiti, hanno emissioni al camino di sostanze pericolose ridottissimi, fino a un centesimo o meno, per alcuni inquinanti, rispetto ad impianti anche solo di pochi anni fa. Gli impatti sulla salute, anche se non annullati, risultano quindi molto ridotti”.

Per attenuare l’impatto sulla salute, però, gli attuali inceneritori sono diventati impianti molto complessi e costosi da costruire e gestire. E questo si è riflesso sulle loro tariffe: ogni tonnellata di RSU incenerita costa ai comuni intorno a 150 euro. Dato che la raccolta differenziata costa in media sui 198 euro/tonnellata ai comuni, apparentemente l’incenerimento è una scelta più economica. Ma in realtà gli inceneritori incassano denaro anche tramite gli incentivi all’elettricità prodotta bruciando i rifiuti, pagati da tutti in bolletta elettrica tramite il ‘famigerato’ Cip6.

Nel 2012 in Italia gli 810 MW dei termovalorizzatori, hanno prodotto 2,1 TWh elettrici da RSU considerati rinnovabili (sui 3,7 TWh totale, poco più dell’1% dei consumi italiani), incentivati con 390 milioni l’anno, ovvero 188 euro/MWh, o 126 euro/tonnellata (dati corretti riseptto alla prima versione pubblicata il 3 ottobre, ndr).  Sommando tariffa + incentivi, i termovalorizzatori “bruciano” quindi circa 220 euro per tonnellata di Rsu (considerato che gli incentivi gravano solo su una parte del totale), superando il costo della raccolta differenziata, che ha anche un impatto più importante in termini di occupazione.

“È ormai evidente – conclude Morselli  – che si andrà nel tempo verso una riduzione di discariche e di inceneritori, con una raccolta differenziata al 65-70%, perché se si comparano costi, opportunità di lavoro, impatto ambientale e accettazione della popolazione, tutto è favorevole alle quattro R ‘Riduzione, Recupero, Riciclo, Riuso‘. Ma nel frattempo consideriamo, per favore, cosa accade nei paesi europei più avanzati nella corretta gestione dei rifiuti, quelli che hanno già quasi azzerato le discariche: tutti accoppiano a un alto tasso di raccolta differenziata, uno di incenerimento quasi altrettanto alto. Per esempio, nel 2012: Austria: incenerimento 35%, riciclaggio/compostaggio 62%, Danimarca 52-45, Belgio 42-57, Germania 35-65. In Italia siamo ancora al 41% di discariche, 18% di incenerimento e 41% di riciclaggio/compostaggio. E’ evidente quale sia da noi il punto più carente, per avere un Sistema di gestione integrata dei rifiuti vicino ai migliori esempi europei”.

Sarà così, ma proprio guardando le percentuali dei ‘virtuosi’ europei, non si capisce perché non si sia definita ‘strategica’ la raccolta differenziata, almeno quanto, se non di più, degli inceneritori.

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