Cosa frena l’efficienza energetica nell’industria italiana?

Quasi tutte le tecnologie per l’efficientamento energetico nell'industria sono economicamente sostenibili anche senza incentivi ed entro il 2020, con l'efficienza, si potrebbero dimezzare i consumi dell'industria italiana. Ma restano da superare gli ostacoli di una normativa inadeguata e di una cultura del risparmio energetico ancora poco diffusa.

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Il costo dell’energia, del 25% superiore rispetto alla media europea soprattutto a causa del mix energetico fortemente dipendente dall’estero del nostro Paese, è uno dei principali handicap dell’industria italiana. Ad aggravare la situazione il fatto che l’efficienza energetica delle attività produttive italiane anziché migliorare in questi ultimi anni è leggermente peggiorata. Eppure i modi per tagliare le bollette delle aziende ci sarebbero: con l’efficienza energetica si potrebbero dimezzare i consumi dell’industria entro il 2020, spiega la seconda edizione dell’Energy Efficiency Report redatto dall’Energy & Strategy Group del Politecnico di Milano, che sarà presentata domani, ma che Qualenergia.it ha potuto vedere in anteprima.

Secondo lo studio (Qualenergia.it, L’efficienza energetica per dimezzare i consumi dell’industria) quasi tutte le tecnologie per l’efficientamento energetico nell’industria (inverter, rifasamento dei carichi elettrici e interventi sul sistema ad aria compressa, UPS ad alta efficienza, tecnologie di accumulo nel sistema ad aria compressa, sistemi per il controllo dinamico della pressione in un impianto di refrigerazione, cogenerazione con turbina a gas o motore a combustione interna, sistemi efficienti di combustione) risultano economicamente sostenibili in tutte le condizioni e anche in assenza di sistemi di incentivazione.

Perché allora l’efficienza energetica nei processi industriali non sta esprimendo il suo potenziale? Le ragioni – spiega il report – sono fondamentalmente due: la prima è il quadro normativo che nel nostro Paese sconta un “ritardo” significativo rispetto per esempio al benchmark europeo; la seconda è che manca una vera “cultura” dell’efficienza energetica – negli operatori industriali, ma anche nelle banche e negli istituti di credito.

Lo studio offre una fotografia della situazione anche su questi due aspetti. Dal punto di vista normativo ci sono novità positive nella direttiva europea sull’efficienza energetica approvata lo scorso 11 settembre e già in Gazzetta. Anche il sistema delle norme ISO e UNI tra il 2009 e il 2011 ha fatto passi in avanti estremamente significativi, definendo – con la ISO 50001 del 2011, la UNI CEI 11352:2010 e la UNI CEI 11339:2009 – i requisiti cui dovrebbero sottostare tre attori fondamentali della filiera dell’efficienza, soprattutto in ambito industriale, ovvero le imprese “utilizzatrici di energia”, le ESCo e i professionisti nella “gestione dell’energia” (EGE).

Nel frattempo però in Italia il recepimento della Direttiva 32/2006/CE sull’efficienza energetica, integrata dalla nuova, è avvenuto con due anni di ritardo con il D.lgs. 115/08 e in una versione depotenziata, senza meccanismi di qualificazione prescrittivi e con il fondo rotativo di finanziamento degli interventi (Fondo Rotativo “Kyoto” previsto dalla Finanziaria 2007) che è divenuto effettivamente operativo solo nel 2012. Solo un gruppo ristretto di operatori industriali si è certificato ISO 50001, seguiti da 27 ESCo (l’1,4% del totale di quelle iscritte all’Autority) certificate UNI CEI 11352:2010 e 30 professionisti in “gestione dell’energia”.

Anche sul fronte dei titoli di efficienza energetica (TEE), dove pure non sono mancati segnali positivi legati alla riduzione della soglia minima per la presentazione dei progetti e l’introduzione, più volte chiesta a gran voce dal mercato, del coefficiente di durabilità “τ” che tiene conto della vita tecnica attesa degli interventi, rimane come una “spada di Damocle” sui progetti di investimento in corso di valutazione l’incertezza sul futuro del meccanismo a partire dal 1° gennaio 2013.

Dalla ricerca dell’Energy & Strategy Group emerge che anche sul versante culturale nel nostro Paese c’è molto da fare. Poco meno del 17% delle imprese censite – se si escludono ovviamente quelle obbligate dalla Legge 10/91, perché aventi consumi annui superiori ai 10.000 tep – dispone di un energy manager. Solo il 22% adotta un approccio strutturato alla “gestione dell’energia”, contro un 69% di operatori che adotta invece ancora oggi approcci piuttosto “rudimentali” di misura e controllo dei consumi energetici, e quasi il 15% che addirittura non ha attivato nemmeno questi.

Solo nel 10% dei casi la riduzione dei consumi energetici è stata il driver primario di scelta nel realizzare un investimento. Nel 71% dei casi i progetti di investimento si sono scontrati con “barriere” di natura economica e più precisamente con tempi di ritorno giudicati inizialmente troppo lunghi (anche a causa dell’incertezza normativa che contraddistingue il settore), cui si sono affiancati nel 40% dei casi anche problemi legati al reperimento delle risorse finanziarie necessarie.

Gli operatori qui “puntano il dito” in particolare contro le banche italiane, che al momento si rivelano essere piuttosto riluttanti rispetto al finanziamento degli interventi di efficienza energetica, sia quando essi sono direttamente realizzati dalle imprese sia quando lo sono in “cordata” con le ESCo. Il problema – commentano gli autori del report – non è di facile soluzione in quanto, se ci si mette nella prospettiva del finanziatore, il rischio relativo per esempio al perdurare dei meccanismi di incentivazione si abbatte sulla capacità di costruire un piano di rientro sufficientemente “garantito”.

Solo due fattori paiono addolcire un po’ il quadro: il 64% delle imprese del campione conosce le ESCo e ha valutato o sta valutando l’opportunità di usufruire dei loro servizi, anche se ancora il 40% di queste imprese indica come unica funzione della ESCo l’espletamento dell’iter burocratico di ottenimento dei TEE (e l’eventuale successiva gestione), mentre solo il restante 24% le reputa un interlocutore potenzialmente interessante per competenze tecniche e capacità finanziarie al fine di realizzare interventi di efficienza energetica; lo “sblocco” del Fondo Centrale di Garanzia per le PMI agli interventi di efficienza energetica può permettere di incrementare, per lo meno sulla carta, il merito di credito delle ESCo italiane nei confronti delle banche.

Non è chiaro se questi fattori, assieme all’enfasi che all’efficienza energetica viene data nella Strategia Energetica Nazionale, possano rappresentare i primi segnali di una “inversione di rotta” in positivo del nostro Paese, oppure siano l’ennesimo esempio di “distonia” del quadro complessivo di cui abbiamo dato ampie prove nel passato recente un po’ su tutti i pillar del Pacchetto 20-20-20.

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