Energia e investimenti, la bolla del carbonio è pronta a scoppiare: chi perderà di più?

Entro una quindicina d’anni, secondo un recente studio di varie università, l’economia internazionale sarà scossa da un nuovo terremoto finanziario, stavolta connesso alla "carbon bubble" dei troppi soldi investiti nei combustibili fossili. La ricerca in sintesi e alcune considerazioni.

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Quando scoppierà la bolla del carbonio?

Abbastanza presto, prima del 2035, secondo un recente studio pubblicato su Nature Climate Change da un gruppo internazionale di ricercatori di varie università, Macroeconomic impact of stranded fossil fuel assets (sintesi allegata in basso).

Con il risultato, evidenzia una nota divulgativa diffusa dall’Università di Cambridge che ha partecipato al lavoro, di cancellare somme spropositate dal sistema economico globale, si parla di mille-quattromila miliardi di dollari.

Tutti questi soldi, spiegano gli autori del documento, si riferiscono ai cosiddetti “stranded asset”, quegli investimenti destinati a perdere valore nei prossimi anni, essendo legati ai combustibili tradizionali e alle relative infrastrutture: gasdotti, impianti a carbone, pozzi petroliferi, miniere e così via.

A un certo punto, sostengono i ricercatori di Cambridge e delle altre università coinvolte, a causa della domanda in declino di risorse fossili e alla contemporanea evoluzione tecnologica delle fonti rinnovabili, gli enormi flussi finanziari accumulati nella bolla non riusciranno più a generare profitti sufficienti, facendola esplodere, con conseguenze devastanti per alcuni paesi.

Lo scoppio della bolla, secondo lo studio, sarà inevitabile, ma avrà i suoi effetti peggiori in uno scenario di accelerazione verso le tecnologie a zero emissioni inquinanti, quello da perseguire per rispettare gli accordi di Parigi sul clima (contenere il surriscaldamento entro 1,5- 2 gradi centigradi), combinato con il tentativo dei paesi OPEC di mantenere alta la produzione di petrolio, nonostante il forte calo dei consumi di oro nero e dei suoi prezzi.

Questa strategia di “sell-out” consentirebbe al cartello mediorientale di eliminare dal mercato petrolifero quei paesi, come Canada, Stati Uniti e Russia, che non sarebbero più in grado di competere con i loro giacimenti di greggio molto più costoso da estrarre e produrre (soprattutto lo shale oil negli scisti o nelle sabbie bituminose in America settentrionale).

A vincere, si legge nella ricerca, sarebbero quelle nazioni maggiormente propense a investire in energie rinnovabili in tutti i settori, dalla produzione di elettricità ai trasporti, alleggerendo progressivamente, ma rapidamente, la loro dipendenza dalle importazioni di gas, carbone e petrolio: ad esempio la Cina, molti paesi dell’Unione Europea, il Giappone, potrebbero guadagnare molto in un’economia sempre più “verde”.

Al contrario, l’industria fossile americana, russa, canadese, rischierebbe di quasi scomparire dai radar dell’economia mondiale dopo l’esplosione della carbon bubble.

Andrà davvero così? I ricercatori hanno basato le loro analisi su complessi modelli integrati che comprendono molteplici fattori macroeconomici e altri che riguardano l’evoluzione storica/prevista delle diverse tecnologie e l’andamento delle politiche ambientali.

D’altronde, un recente studio di Carbon Tracker ha spiegato che le multinazionali di gas, carbone e petrolio rischiano di spendere inutilmente miliardi di dollari nei prossimi anni, per realizzare nuovi impianti che saranno sottoutilizzati in un mondo sempre più orientato a ridurre le emissioni di CO2.

In questi mesi, poi, abbiamo visto quanto siano ambigue le strategie di molti colossi dell’energia – Eni, Shell, BP: vedi QualEnergia.it – indecisi tra l’abbandono graduale degli investimenti più “sporchi” a vantaggio delle rinnovabili e il mantenimento dello status quo, confidando in altri decenni di crescita continua della domanda di carburanti fossili a prezzi elevati.

Intanto, sta aumentando il numero di banche e assicurazioni convinte che la strada giusta sia disinvestire “a tappe” dalle fonti fossili – ad esempio Lloyd’s e la Banca Mondiale, vedi QualEnergia.it – mentre l’Europa di recente ha proposto alcune misure per favorire la finanza “sostenibile” e così allineare gli investimenti agli obiettivi ambientali degli Stati membri.

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