Nuova via della seta o un altro disastro ambientale?

The Belt and Road Initiative, un progetto infrastrutturale cinese con porti, strade, ferrovie, oleodotti, elettrodotti, zone industriali e centrali elettriche, realizzati in 65 paesi. Il suo impatto sociale, ambientale e sulle risorse. Un modello di crescita novecentesco per aumentare scambi e profitti.

ADV
image_pdfimage_print

Il progetto cinese di costruire una serie di infrastrutture stradali, ferroviarie e marittime per collegare tutta l’Eurasia e l’Africa, la nuova “Via della Seta”, è stato presentato come un’occasione di pace e progresso per l’umanità, ma rischia di essere il colpo finale ad ambiente e clima.

Nel 2013 il governo cinese presentò quello che si può considerare il più grande progetto infrastrutturale della storia del mondo, la The Belt and Road Initiative (BRI): una serie di progetti di porti, strade, ferrovie, oleodotti, elettrodotti, zone industriali e centrali elettriche per alimentarle, sparse in 65 paesi di Eurasia e Africa, contenenti i 2/3 dell’umanità, per collegare in modo stabile e continuo l’Atlantico all’Oceano Indiano e al Mar Cinese, sia via mare che via terra.

La “Via della seta marittima” prevede decine di porti nuovi o rinnovati fra la Cina meridionale, Indocina, India, Pakistan, Africa Orientale, Atene e Trieste.

Le ferrovie prevedono un collegamento da Rotterdam fino a Pechino, un altro dalla Manciuria a San Pietroburgo, uno dalla Birmania fino al Mar Caspio attraverso l’India e con una diramazione fino al porto di Gandhar, in Pakistan, uno dalla Cina meridionale fino a Singapore e altri ancora che collegano la costa est e ovest dell’Africa.

Le pipeline dovrebbero portare gli idrocarburi dall’artico siberiano e dal Kazakhstan fino alla Cina, mentre numerosi progetti di centrali a rinnovabili, soprattutto idroelettrico, sono “compensati” da 52 nuove centrali a carbone, che si aggiungerebbero alle 240 già costruite dalla Cina in quei paesi.

Alcuni di questi progetti sono già avviati. Per esempio l’appena completata ferrovia fra Addis Abeba e Gibuti o il rinnovamento del porto del Pireo, ma gran parte arriverà nei prossimi decenni, con una spesa stimata di circa 1.000 miliardi di dollari.

Lo scopo di questo titanico sforzo, è quello di facilitare sui tre continenti uno scambio continuo di materie prime e prodotti, che, secondo il segretario del Partito Comunista cinese, Xí Jìnpíng, dovrebbe innescare un’era di prosperità e pace transcontinentale, portando anche lavoro e sviluppo in aree oggi escluse dalla comunità globale, in Asia Centrale e Meridionale e Africa.

Le critiche al progetto

Nonostante queste buone intenzioni ufficiali, le critiche alla BRI non sono mancate.

La prima è l’accusa alla Cina di perseguire mire monopolistiche, legando a sé in modo irrevocabile molti dei paesi coinvolti, che finirebbero per dipendere da lei sia per la commercializzazione di materie prime e prodotti, che per ripagare gli enormi debiti contratti.

Altri hanno puntato il dito sul fatto che la BRI è solo un modo per la Cina di mantenere il suo modello di sviluppo e di creazione di lavoro, basato sulla continua costruzione di infrastrutture, estendendolo a livello continentale e lasciando le briciole ai locali.

Infine, altre critiche sono piovute per i modi, diciamo disinvolti, con cui la Cina starebbe procedendo in pratica alla realizzazione del piano: dalla Thailandia, all’Ungheria, dal Nepal al Pakistan, fioccano accuse di violazione delle regole degli appalti, di richieste esagerate di interessi sui prestiti o di uso irregolare della manodopera locale.

E l’impatto sull’ambiente e le risorse ?

Stranamente, però, ben pochi hanno alzato il sopracciglio su una questione più basilare dei meri problemi economici, geopolitici e finanziari: che effetto avrà sull’ambiente e il clima questa colossale colata di cemento e acciaio estesa su tre continenti?

Ha provato a dare una prima risposta a questo quesito, anche se solo qualitativa, in quanto i dettagli dei vari progetti sono ancora molto vaghi, un gruppo internazionale di ricercatori, diretti dal biologo australiano William F. Laurance, della James Cook University, con un articolo pubblicato su Nature Sustainability (allegato in basso).

«Il primo problema che abbiamo evidenziato è la costruzione stessa di queste infrastrutture, che richiederà enormi quantità di cemento, acciaio e asfalto, con le relative emissioni di gas serra, e aumentando esponenzialmente la richiesta di materie prime, come sabbia e ghiaia, il cui sfruttamento globale va già al di là dei tassi di ricostituzione naturale», ci dice Laurance.

Il secondo problema riguarda invece più direttamente l’ambiente.

«Come ha indicato il WWF, le infrastrutture della BRI attraverserebbero 200 ecoregioni, fra cui 1739 zone ad alta biodiversità, contenenti 46 hotspost, cioè aree naturali di interesse globale. In totale, ci sarebbero impatti sull’habitat di 265 specie minacciate, di cui 89 a rischio di estinzione e 39 a rischio critico di estinzione».

Ma una ferrovia che attraversa un parco non sembra poi tutto questo gran problema.

«Purtroppo le infrastrutture di comunicazione, oltre a provocare incidenti direttamente, dividono in due gli areali di vita degli animali terrestri, spesso già confinati in zone molto più ridotte che in passato, diminuendone le chance di riprodursi e alimentarsi in modo adeguato. Inoltre strade e ferrovie attraggono popolazione, industrie, agricoltura, con i relativi disboscamenti, arature, bracconaggio e inquinamento: si calcola che in Amazzonia il 95% della deforestazione avvenga a 5,5 km dalle strade, per esempio».

Permettere l’accesso a riserve di idrocarburi oggi scarsamente sfruttate perché poco raggiungibili, rallenterebbe poi la “disintossicazione” del mondo dai fossili, così come lo farebbe l’aumento di scambi commerciali, che farà crescere la richiesta di carburante per i mezzi.

«In generale questo progetto sembra essere piovuto dagli anni ’50 del XX secolo – sintetizza Laurance – quando tutto l’accento era su come aumentare sfruttamento di materie prime, commerci, consumi e profitti, senza riguardo per le conseguenze ambientali e sociali. Per fare solo un esempio, collegare Cina ed Europa con autostrade e ferrovie, certo accorcerebbe il tempo di arrivo delle merci, con vantaggi per chi le vende, ma il conto lo pagherebbe il clima, visto che una nave emette, in media, 25 gr CO2/ton di merce, contro i 50 di un treno e i 100 di un camion».

Quindi la BRI va bocciata?

«Va almeno ripensata, per minimizzare il suo impatto ambientale, sia eliminando i progetti più insostenibili e inutili. Alcuni passi in questo senso sono già stati fatti, per esempio il progetto per una autostrada che doveva attraversare il parco del Serengeti, in Tanzania, è stato rivisto in modo da aggirarlo, mentre la ferrovia che attraverserà l’Indocina, è stata riprogettata per dotarla di sovrappassi per gli animali».

In generale Laurance e colleghi chiedono che si applichino in tutti i progetti della BRI le norme ambientali cinesi, che, almeno sulla carta, sono molto severe, ma che oggi vengono seguite dagli imprenditori cinesi all’estero solo su base volontaria

«A sorvegliare sulla loro applicazione di queste norme dovrebbero poi essere comitati indipendenti di scienziati, dal cui parere dovrà dipendere la concessione dei finanziamenti. Una buona frazione di questi ultimi, infine, dovrebbe andare allo studio e protezione delle aree ad alta biodiversità attraversate».

Resta però il problema della filosofia alla base della BRI: facilitare al massimo i commerci per aumentare consumi spesso superflui, indifferenti alle conseguenze su clima e ambiente.

«Spettasse a me decidere, la BRI la cancellerei, promuovendo invece progetti di sviluppo sostenibile locali nelle zone più povere. Ma, viste le forze in gioco, sarebbe già tanto se riuscissimo almeno a bloccare le sue parti peggiori e dare spunti di riflessione ai finanziatori, facendogli capire che se quelle infrastrutture si rivelassero inutilizzabili, perché, per esempio, contrastano con gli accordi sul clima, potrebbero anche perdere il loro investimento», spiega Laurance.

«Se a fare pressione per la sostenibilità ambientale della BRI saranno i suoi finanziatori, avranno certo più ascolto di noi scienziati».

ADV
×