L’imbroglio dell’olio di palma nel biodiesel

Quasi la metà dell’olio di palma usato nell’Unione Europea finisce bruciato come biodiesel nei motori a gasolio, contribuendo alla distruzione delle foreste equatoriali e peggiorando la situazione climatica, il tutto con la benedizione, e i sussidi, degli Stati europei.

ADV
image_pdfimage_print

Sono un consumatore cosciente dei danni ambientali e climatici che produciamo con le nostre scelte di acquisto.

Così, sapendo che l’olio di palma è prodotto in gran parte da terreni ottenuti distruggendo la foresta tropicale, quando vado al supermercato evito accuratamente i prodotti che lo contengono, aiutato in questo dal fatto che questo ingrediente è diventato una sorta di appestato (ma principalmente per effetti negativi sulla salute ancora da dimostrare). La sua assenza è annunciata sulle confezioni dei tanti prodotti, alimentari e cosmetici, che un tempo lo contenevano.

Poi, fatta la mia “spesa consapevole”, mi fermo al distributore e faccio il pieno alla mia utilitaria diesel. E, senza che me ne renda conto, con il gasolio da petrolio mi entrano nel serbatoio 2 o 3 litri di olio di palma, trasformato in biodiesel: molto di più che se avessi riempito le sporte di prodotti contenenti quest’olio tropicale!

Questa beffa è in atto già da molti anni, e la cosa paradossale è che l’uso di olio di palma per farne “gasolio verde” è così sussidiato nell’Unione Europea, nel quadro della sostituzione del 10% dei combustibili da petrolio con biodiesel e bioetanolo, che il 46% delle sette milioni di tonnellate di olio di palma che l’Europa importa ogni anno, finiscono bruciate nei motori diesel (e un altro 16% per produrre elettricità “verde”).

Si potrebbe sperare che, almeno, questo uso dell’olio di palma nei motori contribuisca ad abbattere le emissioni di CO2 del 50-60% rispetto al gasolio, come specificato dalle stesse regole che l’UE ha fissato. Ma è vero esattamente l’opposto.

Un rapporto del 2015, richiesto dalla Commissione Europea ad un consorzio di enti di ricerca coordinati dall’International Institute for Applied Systems Analysis, ha concluso che fra i vari tipi di biocombustibili per autotrazione (biodiesel e bioetanolo), l’olio di palma è quello che produce di gran lunga più emissioni: circa 230 grammi di CO2 per ogni MegaJoule di calore prodotto.

Il biodiesel da soia emette circa 150 grCO2/MJ, quelli da olio di colza e girasole circa 65 gr/MJ. 

Il biodiesel venduto in Europa, fatto con un mix di questi oli vegetali, in media è associato all’emissione di circa 100 grCO2/MJ.

E il gasolio da petrolio? Emette circa 60 gr di CO2/MJ: il che vuol dire che il “verde” biodiesel da olio di palma emette quasi 4 volte più CO2 del gasolio da petrolio, e che il biodiesel europeo attuale è peggio del gasolio in quanto a emissioni.

L’imbroglio delle bioenergie, come lo chiama la rivista New Scientist, deriva dal fatto che nel calcolo del loro effetto sul clima si considera solo la CO2 evitata sostituendo carbone e petrolio, e non quella emessa a causa del loro uso.

«Se si tagliasse l’intera Amazzonia per sostituire con legna il carbone usato in Europa, quello conterebbe come riduzione del 100% nelle emissioni di CO2», ironizza l’economista delle risorse Tim Searchinger della Princeton University.

La ragione per cui l’olio di palma è così “nefando” per il clima, non risiede però nella sua scarsa resa, al contrario: fra le piante da olio è senz’altro la regina, visto che produce 5 volte più olio per ettaro della colza e 9 volte più della soia.

Il problema è che la palma da olio cresce in aree equatoriali, normalmente occupate da foresta. Sotto quelle aree ci sono spesso terreni torbosi che, una volta deforestati e drenati, si decompongono rapidamente, o bruciano, liberando enormi quantità di CO2 in atmosfera.

Ma allora perché l’Europa continua a sostituire il 5% del gasolio con olio di palma?

Forse sperano che, almeno entro un prossimo futuro, tutto l’olio di palma usato sia “certificato sostenibile” dalla Roundtable on Sustainable Palm Oil (Rspo), ente finanziato dalle industrie che usano olio di palma che garantisce che l’olio non provenga da nuovi terreni deforestati.

Peccato che una recente ricerca apparsa su Pnas e coordinata dall’ecologa Kimberley Carlon dell’Università del Minnesota, abbia calcolato che solo il 20% dell’olio di palma sul mercato sia certificato Rspo e che questo proviene da terreni contenenti solo l’1% della foresta equatoriale rimanente.

Ciò vuol dire che sono piantagioni che ormai hanno già eliminato tutta la natura possibile dal loro interno, e possono anche permettersi di essere “certificate”, mentre le piantagioni che producono il restante 80%, avendo ancora molto da deforestare, se ne guardano bene dal “certificarsi”.

Inoltre, come nota l’associazione Transport & Environment, che fa campagna da tempo contro i biocombustibili nei trasporti, la crescente domanda di olio di palma per biodiesel induce i contadini a trasformare i campi per il cibo in piantagioni di palma da olio “certificata”, mentre nuova deforestazione servirà a produrre gli alimenti che sono venuti a mancare.

Ma c’è di peggio: la domanda di olio di palma, che è il più economico e versatile degli oli vegetali, continua a salire, e, grazie anche all’esempio europeo, sempre più parti del mondo contano di soddisfare i loro obblighi climatici usandolo per sostituire parte dei combustibili fossili: continuando così al 2030 il mondo userà più del doppio degli attuali 60 milioni di tonnellate di olio di palma, la metà dei quali come “combustibile verde”. E allora anche le foreste equatoriali africane e sudamericane, e non solo quelle malesi e indonesiane, che ne forniscono oggi l’85%, cederanno il posto a piantagioni di palma da olio. 

Di fronte a questo disastro annunciato, il Parlamento Europeo, nel gennaio scorso, ha in effetti votato per escludere l’olio di palma dai sussidi per il biodiesel entro il 2020.

Il problema è che il Parlamento Europeo non decide quasi nulla, e dovrà essere la Commissione a recepire il suo suggerimento, e questa, almeno per ora, non ha fiatato sul tema, dimostrandosi molto sensibile alle sirene dell’industria del biodiesel, che spesso coincide con quella del petrolio (vedi le bioraffinerie Eni in Italia, presentate come la risposta “verde” del nostro gigante energetico), felice di aver trovato una soluzione “sostenibile” che allunghi la sopravvivenza del motore a scoppio.

Ma le cifre sulle emissioni ricordate prima dicono che anche se l’Ue bandisse l’olio di palma dal biodiesel, cambierebbe poco: non solo il biodiesel fatto con altri oli vegetali comunque emetterebbe più CO2 che il gasolio da petrolio, ma bruciare più di quegli altri oli nei motori a scoppio richiederebbe l’estensione delle loro coltivazioni, provocando ulteriore deforestazione, mentre l’aumento del loro prezzo renderebbe più conveniente sostituirli con olio di palma negli altri usi, alimentando così comunque la crescita delle piantagioni di palma da olio.

Servirebbe quindi un “taglio netto” all’inestricabile imbroglio dei biocombustibili. In altre parole, si dovrebbe smettere di spendere denaro pubblico per mantenere in vita artificialmente il motore a scoppio, con pannicelli caldi che lo rendano “meno insostenibile” e che spesso si rivelano peggiori di quello che vanno a sostituire, puntando invece tutti i possibili sussidi e investimenti sull’elettrificazione dei trasporti.

In fondo i biocombustibili sono solo un modo, contorto e irto di rischi, per usare l’energia solare per i trasporti: peccato che la fotosintesi immagazzini solo l’1% circa dell’energia del sole che cade sulla pianta. I pannelli fotovoltaici e le turbine eoliche, con cui ricaricare i mezzi elettrici, sfruttano l’energia solare molte volte meglio, e senza mettere a rischio le foreste tropicali e le specie animali che ci vivono dentro.

ADV
×