Quando l’impianto a biogas non lo voglio nel mio giardino

Un impianto per il biogas realizzato da un consorzio di allevatori in Alto Adige incappa nella sindrome Nimby. Il timore era l'odore. Con l'impianto, ora avviato, ma che stenta a decollare, questo aspetto si risolve e si hanno altri benefici ambientali. Come ostacolare le energie rinnovabili con la burocrazia.

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È una storia sintomatica del nostro Paese, quella dell’impianto per il biogas messo in piedi dalla Biogas Wipptal in provincia di Bolzano.

Sono 64 le imprese agricole a conduzione familiare che qualche anno fa decidono di risolvere due problemi ambientali pensando di integrare il reddito derivato dall’allevamento delle mucche da latte producendo energia rinnovabile ed evitando l’inquinamento da odore provocato dall’utilizzo delle deiezioni bovine come concime.

Già perché i tempi sono cambiati. E nelle campagne altoatesine oggi il turismo è una voce fondamentale per tutta la regione.

E allora hanno pensato al biogas, producendo energia dal basso con un investimento importante, tutto sulle loro spalle: oltre 15 milioni di euro.

E qui inizia una trama che abbiamo visto molte volte in Italia. Un impianto energetico per quanto sia rinnovabile trova sempre una forte opposizione. A qualsiasi livello. Per l’eolico si citano spesso paesaggio e avifauna, per il fotovoltaico a terra ancora paesaggio e occupazione di suolo, anche se il terreno è marginale e così via.

E anche qui c’è stata una reazione perché si temeva che l’impianto potesse “odorare”, anche se poi si tratta di digestione anaerobica. Ed ecco allora arrivare, a progetto presentato e a pratica chiusa presso il Gse, l’opposizione del Comune di Vipiteno – confinante con quello di Val di Vizze, dove è situato l’impianto – per timore di perdere flusso turistico a causa degli odori che potrebbero arrivare, il condizionale è d’obbligo, dall’impianto.

Arrivano quindi opposizioni insensate e burocratiche fatte di colpi di carte bollate che hanno ritardato la realizzazione dell’impianto per oltre due anni, con il rischio oggi concreto che gli unici a rimetterci siano gli oltre sessanta allevatori altoatesini che hanno impegnato tutte le loro risorse in questa sfida energetica.

Nel frattempo, infatti, i costi dell’impianto sono lievitati, gli incentivi si sono quasi dimezzati – complice anche la normativa che costringe gli investitori ad avere un termine ultimo per realizzare gli impianti anche in presenza di ostacoli, come i ricorsi, peraltro indipendenti dalla volontà degli stessi imprenditori.

Ora, vinti i ricorsi fino a quello finale al Consiglio di Stato, l’impianto è partito, funziona e non inquina, ma gli incentivi nel frattempo sono dimezzati, mettendo a rischio l’assetto economico e finanziario di tutta l’operazione.

«Abbiamo passato dei periodi pessimi. – ci dice Klaus Stocker presidente della Biogas Wipptal – Prima tutte le difficoltà per trovare il sito al fine di realizzare l’impianto, poi l’opposizione del Comune di Vipiteno che è riuscito a avere una sospensiva dei lavori dal Tar di Bolzano, a seguire tutto l’iter, fino al Consiglio di Stato. In tutti i gradi di giudizio abbiamo vinto. Ma il ritardo totale è stato di oltre due anni».

Un ritardo che confrontato ad altri casi, come quello del parco eolico off shore di Taranto, davanti all’Ilva, bloccato per tredici anni per motivi “paesaggistici” potrebbe apparire quasi lieve. Ma non è così se si tiene conto del fatto che si tratta di un investimento sulle rinnovabili dal basso, quasi una comunità energetica.

Di puzza, anche all’interno dell’impianto, naturalmente nemmeno il sentore. E dire che i 3.800 capi di proprietà degli agricoltori della società consortile “forniscono” qualcosa come 187 metri cubi al giorno di reflui zootecnici che sono la “materia prima” dell’impianto.

Quei liquami provenienti dagli allevamenti in verità sono stati sequestrati, con grande soddisfazione degli operatori turistici e dei turisti, da un impianto per la produzione del biogas.

Esattamente il contrario di ciò che si temeva. L’impianto ha una potenza di 1 MWe, con una produttività di oltre 8.000 ore l’anno, ma la vera novità è ciò che si trova a valle della generazione energetica.

Dal materiale di risulta del processo di estrazione del biogas, infatti, viene levata l’acqua, che è circa il 65% del totale, grazie a un innovativo sistema d’osmosi inversa che ha consumi elettrici pari a un decimo rispetto all’osmosi tradizionale.

L’acqua è talmente pura che a dimostrazione di ciò alimenta, in minima parte, un acquario di pesci tropicali, mentre il resto del materiale solido viene essiccato con aria e con cascami di calore residui provenienti dalla generazione elettrica.

Una volta essiccato il residuo solido viene pallettizzato per poter essere commercializzato come fertilizzante che è stato riconosciuto dal ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali come utilizzabile per le coltivazioni biologiche di ortaggi, frutta e uva, visto che proviene da allevamenti bovini biologici e a basso impatto ambientale.

Questo concime organico è stato registrato alla fine di settembre 2017, nel Registro Nazionale Fertilizzanti, con il nome di Biwi.

Si tratta di un’iniziativa che nelle intenzioni del consorzio potrebbe compensare la perdita dovuta alla riduzione degli incentivi, ma può essere un percorso utile anche per altre realtà.

L’utilizzo dei residui della digestione anaerobica come fertilizzante di qualità, oltre a rappresentare un’integrazione al reddito, ha anche un valore economico/ambientale non indifferente. Questo processo, infatti, diminuisce gli impatti degli allevamenti e riduce la spesa per la depurazione innescando così un vero processo circolare.

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