Cosa dovremmo fare per fermare il global warming a +1,5 °C?

A questi ritmi, in 6 anni ci saremo giocati il “carbon budget” per fermare entro quel limite il riscaldamento. Quanto in fretta dovremmo abbandonare le fossili per le rinnovabili? Sarà necessario affidarsi alla CCS? Uno studio dell'International Institute for Applied Systems Analysis prova a rispondere.

ADV
image_pdfimage_print

C’è una ricetta “giusta” per salvare il clima?

Un gruppo di ricercatori dell’istituto scientifico IIASA (International Institute for Applied Systems Analysis) sostiene che ci siano buone probabilità – intorno al 66% – di limitare il surriscaldamento globale a 1,5 gradi entro il 2100, in confronto ai livelli preindustriali, ma solo se saranno rispettate alcune condizioni.

Secondo le indiscrezioni trapelate sul prossimo rapporto dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’organismo delle Nazioni Unite che studia i cambiamenti climatici, gli scienziati dell’Onu ritengono che sarà molto difficile rispettare gli accordi di Parigi, che prevedono di ridurre sensibilmente le emissioni di gas serra e così contenere l’aumento delle temperature medie “ben sotto”  i 2 gradi centigradi.

Aspettando che esca il documento ufficiale dell’IPCC, in questi mesi si sono moltiplicate le discussioni su come dosare gli ingredienti del futuro mix energetico e ambientale.

Quanto dovranno crescere le fonti rinnovabili? Quanta anidride carbonica potremo ancora emettere nell’atmosfera? Entro quale anno bisognerà eliminare il carbone? Sarà necessario affidarsi anche alle tecnologie per rimuovere la CO2 rilasciata dai combustibili fossili?

Abbiamo approfondito questi temi in due recenti articoli: Perché geoingegneria e CCS non salveranno il Pianeta e poi Quali impatti per l’Italia e la sua agricoltura con il clima del futuro?

Il nuovo studio della IIASA (documento completo allegato in fondo all’articolo) ha esaminato diversi percorsi che consentirebbero di alleviare il global warming a +1,5 gradi alla fine di questo secolo.

Gli autori, infatti, hanno esplorato i cinque “futuri mondi possibili” riassunti dall’acronimo SSP, Shared Socieconomic Pathways, elaborati dalla comunità scientifica internazionale per aiutare a comprendere più facilmente i rischi climatici nei vari tipi di società in cui potremmo vivere.

Ogni mondo differisce dagli altri per determinati fattori, tra cui la densità di popolazione, lo sviluppo economico, la domanda finale di energia, l’attenzione verso le politiche di sostenibilità ambientale.

Gli scienziati, in sintesi, hanno “incrociato” alcuni modelli per la valutazione integrata degli impatti climatici (IAM, Integrated assessment model) con i dati economici e sociali dei cinque mondi, in modo da scoprire in quali scenari sarà possibile evitare un eccessivo incremento delle temperature.

I modelli utilizzati hanno evidenziato in particolare che:

  • Le emissioni di CO2 dovranno raggiungere il picco nel 2020 e poi declinare velocemente.
  • Il carbon budget globale ammonta a 175-400 miliardi di tonnellate di CO2 nel periodo 2018-2100; la forchetta così ampia dipende in buona parte dal diverso andamento delle emissioni di gas serra diversi dalla CO2, come il metano e gli ossidi d’azoto.
  • Mantenendo il tasso attuale delle emissioni, il carbon budget compatibile con un surriscaldamento terrestre di 1,5 gradi si esaurirà in sei anni.
  • Entro il 2060 dovrà essere eliminata la maggior parte dei veicoli a benzina/diesel.
  • A metà del secolo almeno il 60% della generazione elettrica dovrà essere di origine rinnovabile.

Il limite di questo studio è che prevede un impiego piuttosto massiccio, dalla seconda metà del secolo in avanti, dei sistemi per “catturare” la CO2 emessa dagli impianti industriali, allo scopo di ottenere un bilancio netto negativo di gas-serra.

In altre parole: bisognerà rimuovere dall’atmosfera più CO2 di quella complessivamente rilasciata, tenendo conto anche degli assorbimenti naturali, grazie alle foreste ad esempio.

Tuttavia, altri scienziati hanno rilevato che è molto rischioso puntare sulle tecnologie CCS (Carbon capture and storage) applicate agli impianti a carbone e biomasse – in quest’ultimo caso si utilizza l’acronimo BECCS, Bioenergy with carbon capture and storage – con l’obiettivo di sequestrare l’anidride carbonica dei processi di combustione e stoccarla nel sottosuolo.

Il flop di tanti progetti, i costi elevati, i problemi tecnici e le incognite sull’efficacia di queste soluzioni, sono tutti segnali che dovrebbero scoraggiare gli investimenti nel settore, dirottandoli interamente sulle rinnovabili e sull’efficienza energetica (vedi anche le considerazioni di QualEnergia.it nell’articolo Come sta fallendo il sogno americano del “carbone pulito).

Il seguente documento è riservato agli abbonati a QualEnergia.it PRO:

Prova gratis il servizio per 10 giorni o abbonati subito a QualEnergia.it PRO

ADV
×