Transizione energetica, le sue ricadute e come gestirle

Ridurre radicalmente le emissioni richiede cambiamenti strutturali così profondi da modificare gli assetti dei sistemi energetici, dei processi industriali, del settore terziario e dei consumi. Cambiare il modello di sviluppo richiede attente analisi e proposte specifiche per gestire l’inevitabile impatto socio-economico.

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L’articolo è stato pubblicato sul n.5/2017 della rivista QualEnergia con il titolo “Energie instabili”

L’ormai classico trilemma dell’energia sintetizza le complessità con cui il mercato elettrico deve fare i conti.

Non esiste una formula magica in grado di quantificare il peso ottimale da attribuire ai tre obiettivi da conseguire – risultati economici, sicurezza degli approvvigionamenti, sostenibilità ambientale.

Tuttavia, la priorità da assegnare alle azioni di contrasto al cambiamento climatico smentisce qualsiasi ipotesi di neutralità nelle decisioni da prendere.

Inoltre, la conseguente riduzione delle emissioni climalteranti nella produzione di energia, a sua volta contenuta grazie all’efficientamento energetico, si traduce in un calo della domanda di combustibili fossili, che di per sé contribuisce a migliorare la sicurezza energetica.

Dei tre obiettivi, due sono quindi strettamente correlati e, di conseguenza, qualsiasi ipotesi di neutralità nelle scelte, dalla spesso sbandierata neutralità tecnologica, rappresenta il tentativo di dare un’apparenza di oggettività alla difesa di particolari interessi economici.

Nel contrastare questi interessi si deve evitare la tentazione di liquidare come prive di significato le argomentazioni portate in loro difesa che, più spesso di quanto non si creda, distorcono strumentalmente problemi reali, posti dalla decarbonizzazione dell’economia: problemi economici, sociali, identitari, tutti con implicazioni di natura politica.

Gli interventi per ridurre le emissioni climalteranti comportano trasformazioni strutturali così radicali da modificare in profondità non solo i tradizionali assetti dei sistemi energetici e le regole che li governano, ma anche gli attuali processi industriali e i beni da loro prodotti, il settore terziario e i consumi.

Le ricadute di questa transizione sono pertanto così elevate che, per evitare contraccolpi insopportabili, è necessario diluirla in un arco di tempo di qualche decennio.

Fragilità intrinseche

Sottovalutare queste problematiche, nella convinzione che il processo di decarbonizzazione sia di per sé in grado di risolverle, consente agli interessi economici minacciati di erigersi a difensori dello status quo, che – non va mai dimenticato – include anche posti di lavoro, i quali non sempre, comunque non automaticamente, saranno salvaguardati. Eppure è un errore che difficilmente evitiamo.

Quante volte, dopo avere evidenziato i vantaggi economici e sociali della transizione energetica, per cui l’ambiente non è un vincolo ma un’opportunità, ci soffermiamo sulle misure necessarie per garantire un soft landing? Temo che la risposta sia: quasi mai.

Rischioso sempre, questo deficit di attenzione è particolarmente pericoloso nell’attuale fase storica, caratterizzata da una vistosa fragilità dei meccanismi che, viceversa, nel dopoguerra avevano consentito al sistema democratico di mettere solide radici nel mondo occidentale.

Smentendo consolidate convinzioni, la ripresa economica è stata accompagnata da una recessione democratica anche nei Paesi dove la prima è fuori discussione: lo confermano i risultati delle elezioni negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Germania, tre paesi vicini alla piena occupazione.

Tendenza ribadita anche dalla sua diffusione a macchia d’olio nei paesi dell’est europeo, pure caratterizzati da positivi andamenti economici, che sono governati da partiti o da coalizioni nazionalisti e xenofobi, in alcuni casi esplicitamente autoritari; tendenza che ha investito perfino la “tranquilla” Austria.

E, ovviamente, non risparmia nemmeno gli altri paesi europei. Le cause del diffuso malessere sociale sono molteplici, ma hanno in comune alcune caratteristiche comportamentali: sfiducia nella politica tradizionalmente intesa, quindi chiusura totale verso il mondo esterno come strumento di difesa degli interessi personali, ostilità per qualsiasi cambiamento che possa mettere in discussione la propria identità.

Non a caso, le conseguenze energetico ambientali di questa moderna jacquerie si traducono in politiche più o meno esplicitamente contrarie a quelle avviate con il protocollo di Kyoto e in linea di principio autorevolmente ribadite con l’Accordo di Parigi.

Negli Stati Uniti Trump ora ne parla molto meno, perché ha affidato il compito di smantellare norme e istituzioni a tutela dell’ambiente a Scott Pruitt che, a capo dell’Epa, lo sta eseguendo a tutto campo e senza remora alcuna, favorito dalla scarsa attenzione al suo operato, soprattutto in Europa.

E lo fa occupandosi anche dei dettagli: per esempio, recentemente ha chiesto di definire una metodologia che consenta di evidenziare i vantaggi del ricorso al nucleare e al carbone nella produzione elettrica.

È nota l’ostilità nei confronti di politiche energetico-climatiche più incisive in Europa, da parte dei paesi dell’est facenti parte del gruppo di Visegrád (Polonia, Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia).

Lo spostamento a destra del baricentro politico tedesco rafforzerà un indirizzo che, accanto alla promozione delle rinnovabili, anche in passato ha difeso il ruolo del carbone (e della lignite) nella produzione elettrica – circa il 40% – e ancora di recente ha visto la Cancelliera Merkel appoggiare le posizioni dell’industria automobilistica sulla spinosa questione delle emissioni.

Crisi centrifughe

Di conseguenza, l’Unione Europea sta attraversando una crisi senza precedenti. È percorsa da spinte centrifughe, minacciata dalla crescita di partiti e movimenti populisti e xenofobi che rappresentano la punta di un iceberg, dove frustrazioni individuali e sociali si mescolano con la diffusa sensazione del distacco tra la burocrazia di Bruxelles e le esigenze reali delle popolazioni. Alcuni temono che questa crisi possa rivelarsi irreversibile.

Questo stato di cose rende oggi più che mai difficile trovare una sintesi in grado di superare le eterogeneità nazionali, per cui l’obiettivo di «un mercato interno dell’energia pienamente integrato», proposto dal documento comunitario sull’Energy Union, sembra simile alla scalata dell’Everest da parte di un gruppo di individui privi della necessaria attrezzatura.

Come si deve agire per contrapporsi a queste tendenze, l’ho già scritto e detto in diverse circostanze, ma è opportuno ribadirlo una volta di più.

Nella situazione attuale, quando illustriamo ai non addetti ai lavori la necessità di cambiare il modello di sviluppo, puntando in tutti i settori sulle tecnologie e sui comportamenti “green”, senza accompagnare le proposte specifiche con indicazioni sugli strumenti richiesti per gestirne l’impatto economico e sociale, rischiamo di essere assimilati alle élite che non si preoccupano dei problemi della gente comune, e provochiamo negli interlocutori una reazione di rigetto.

Per evitare questo pericolo, esiste una sola medicina: alle proposte che portano alla riduzione delle emissioni climalteranti, vanno associate l’analisi del loro impatto e indicazioni su come gestirlo.

Occorre però che queste analisi siano fatte in modo approfondito, e siano poi individuate le conseguenti proposte d’intervento ed entrambe diventino patrimonio comunicativo comune. Il compito non è facile ma ineludibile.

Per esempio, l’automobile a combustione interna, partendo dalla produzione per finire alle officine di riparazione, con in più l’indotto nel downstream petrolifero, rappresenta non pochi punti percentuali in termini di Pil e di occupazione diretta e indiretta. Per di più si tratta di un prodotto nel cui costo, anche quando sarà competitivo, la batteria peserà per il 25%.

Se questa sarà importata dalla Cina, esito difficilmente evitabile senza proporre un’iniziativa a livello europeo con un indotto anche in Italia, l’unica in grado di garantire le dimensioni produttive richieste per essere concorrenziali, sarà difficile essere convincenti con i lavoratori dell’automotive. E questo è solo uno dei tanti problemi posti da una riconversione produttiva così radicale.

L’isolamento si evita anche trovando i raccordi con altre realtà, innanzi tutto allargando e rafforzando il rapporto con le organizzazioni dei consumatori, ma anche con una maggiore attenzione a quanto si muove nel mondo delle imprese.

Continua a leggere l’articolo sulla versione digitale della rivista bimestrale QualEnergia

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