Brandscaping e decarbonizzazione: la ricetta per le smart city del prossimo futuro

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Come si è evoluto il ruolo della percezione collettiva legata all’architettura urbana? Il modello Dubai, con i suoi investimenti, anche dall’estero, nell’architettura urbana e nello sviluppo infrastrutturale, è emblematico. Come entrano le rinnovabili in questo modello di sviluppo? Le implicazioni culturali ed economiche.

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Che cosa hanno in comune New York, Londra e Dubai?

Città distanti migliaia di chilometri l’una dall’altra, con alle spalle storie dalla profondità e dalla traiettoria molto diverse, plasmate da contesti culturali solo parzialmente, e recentemente, assimilabili, caratterizzate da tessuti urbani distintivi, centri gravitazionali di sistemi economici peculiari, accomunate, però, da una definizione: tre brandscapes.

Il neologismo brandscape applicato all’architettura e all’urbanistica è stato proposto nel corso dello scorso decennio dalla professoressa Anna Klingmann, cattedratica dell’Università di Gedda e consulente per il governo saudita, e descrive l’evoluzione sia del ruolo che della percezione collettiva legata all’architettura urbana.

L’economia della conoscenza e dell’esperienza hanno trasformato la natura dei prodotti: da oggetti a sensazioni, stili di vita, sistemi complessi di simboli.

In ambito architettonico quest’evoluzione si è tradotta nella trasformazione degli edifici in espressioni di identità, attraverso la capacità di veicolare immagini e simboli in una dimensione monumentale.

Le città che sono state capaci di intercettare i sogni e le ambizioni della classe creativa globale, e a trasformarli in soluzioni architettoniche e urbanistiche, sono riuscite ad assicurarsi crescita economica e fermento socio-culturale, scalando posizioni nella gerarchia del Villaggio Globale.

La decarbonizzazione è attualmente uno degli strumenti di brandizzazione più efficaci a cui un tessuto urbano possa ricorrere.

Il sistema valoriale e i complessi simbolici che sottendono la decarbonizzazione sono, infatti, tanto il prodotto quanto l’incubatrice della classe creativa e del pensiero dominante nel Villaggio Globale, fanno oramai parte dell’immaginario collettivo di progresso.

Il crescente disincanto nei confronti dell’etica individualistica e competitiva, il fascino per la complessità e le contraddizioni, il gusto per il nuovo e la passione per la scoperta si inseriscono perfettamente nella riflessione legata alla decarbonizzazione e trovano dei potenti simbolismi negli strumenti con cui viene implementata.

Un concetto all’apparenza vago e indistinto, ma capace di far convergere massicci investimenti e alimentare notevoli aspettative su progetti ambiziosi e avveniristici.

L’evoluzione del modello Dubai è emblematica.

Nel tentativo di diversificare un’economia cronicamente dipendete dall’esportazione di idrocarburi, sin dagli anni ’70 alcune delle petro-monarchie del Golfo iniziarono a investire ingenti risorse nell’architettura urbana e nello sviluppo infrastrutturale.

A cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’90 gli skylines di città portuali come Dubai, Abu Dhabi e Doha si sono arricchiti di decine di mastodontici grattacieli, progettati da archistars internazionali e dotati di tutte le più moderne tecnologie. L’obiettivo di quelle che a prima vista potevano sembrare cattedrali nel deserto era quello di attirare investimenti esteri nel sistema economico locale e specialisti nel tessuto sociale.

Con l’avvento del nuovo millennio il modello di sviluppo ha iniziato a scricchiolare, per entrare in crisi durante la fase più acuta della Grande Recessione.

I complessi residenziali monumentali, le isole artificiali, i mall sfarzosi e i compound industriali all’avanguardia (e sovente a regime fiscale privilegiato), infatti, hanno contribuito alla diversificazione e alla modernizzazione dei sistemi economici locali, hanno arricchito di specialisti il tessuto sociale, ma non sono riusciti ad affascinare la classe creativa globale.

La posizione geografica pivotale della penisola araba ha aiutato i principali porti della regione a diventare snodi fondamentali della rete commerciale globale, hubs nodali del traffico aeroportuale su lunghe tratte, ma non cuori pulsanti del Villaggio Globale.

Nel corso degli ultimi dieci anni la strategia di sviluppo delle petro-monarchie del Golfo si è quindi riorientata, alla ricerca di una sintesi più efficace.

Progetti come il Louvre e il Guggenheim di Abu Dhabi – ambedue insigniti di premi internazionali per l’ecosostenibilità – sono l’emblema di un nuovo approccio, meno materialista e più consapevole del ruolo dell’egemonia morale e culturale in un mondo globalizzato e interconnesso.

E non è affatto un caso che, mentre sorgono poli museali e città della salute, centri di ricerca e sistemi di trasporto avanzati, i Paesi del Golfo programmino ingenti investimenti destinati alla costruzione di impianti a fonti rinnovabili e alla smartization delle città e del tessuto produttivo.

Gli Emirati Arabi Uniti, che producono circa 3 milioni di barili di greggio al giorno, prevedono investimenti per oltre 160 miliardi di dollari nel solo segmento elettrico entro il 2050, destinati a portare la percentuale di rinnovabili nel mix energetico nazionale al 25% entro il 2030 e al 44% entro il 2050, mentre l’Arabia Saudita, il più grande produttore mondiale di petrolio, ha programmato investimenti in rinnovabili per 50 miliardi di dollari entro il 2023.

Tutte le principali città della regione hanno in cantiere piani di decongestionamento del traffico stradale volti a ridurre l’inquinamento urbano, mentre parallelamente vengono implementati programmi per lo sviluppo dell’E-Mobility.

Expo 2020, che si terrà ad Abu Dhabi, ha visto una proliferazione di progetti green a cominciare dal padiglione della Sostenibilità, progettato da Santiago Calatrava. La struttura avrà un design innovativo e scenografico, sarà realizzata in materiali avanzati, ospiterà decine di stand dedicati a tecnologie e dispositivi connessi alla transizione energetica e godrà di una certificazione di sostenibilità ambientale LEED di livello Platinum.

Il Qatar, che nel 2022 ospiterà la FIFA World Cup, ha varato un piano di razionalizzazione dei consumi e potenziamento dell’efficienza energetica degli edifici che ha già prodotto nel 2016 un taglio considerevole del fabbisogno energetico (-18%) e idrico (-20%) pro-capite.

L’evoluzione del modello Dubai testimonia la crescente importanza dell’ecosostenibilità e della decarbonizzazione nello sviluppo dei tessuti urbani e indica agli operatori e alle aziende del settore la direzione da seguire per rendere più competitiva e resiliente la propria business strategy.

“Green” è oramai un brand di benessere e progresso: infrastrutture, tecnologie, dispositivi e materiali avanzati e “avanzanti”, in grado di far scalare a un sistema produttivo posizioni nella catena del valore globale, capaci di trasformare una città in centro gravitazionale di respiro internazionale.

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