Gas naturale, quel “combustibile ponte” che fa danni al clima

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Nuovi studi mostrano quanto possano “pesare” le emissioni "non intenzionali" di metano in atmosfera, dovute alla catena di produzione-trasporto del combustibile. Il dibattito sul ruolo futuro del gas è in pieno svolgimento in Europa e in Italia, anche alla luce della SEN presentata dal Governo.

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Conviene investire nel gas naturale come “combustibile ponte” della transizione energetica rinnovabile?

Il filone scientifico che critica l’impiego massiccio del metano trova sostegno in due studi recenti, che evidenziano gli impatti negativi di questa fonte fossile, a causa soprattutto delle fughe (gas leaks) nella catena di approvvigionamento (estrazione, produzione, trasporto).

Sul ruolo presente, e soprattutto futuro, del gas il dibattito è apertissimo in Italia, alla luce della nuova Strategia Energetica Nazionale (SEN), che secondo le associazioni ambientaliste e delle rinnovabili è troppo orientata a potenziare le infrastrutture come gasdotti e terminali GNL (articolo di QualEnergia.it sulle polemiche per la costruzione del TAP – Trans Adriatic Pipeline).

A livello europeo, la lobby del gas è molto forte e sta cercando di convincere Bruxelles a “bloccare” gli Stati membri in una sostanziale dipendenza da questo combustibile per i prossimi decenni (vedi QualEnergia.it) con nuovi investimenti in piattaforme di rigassificazione e forniture “via tubo” da paesi diversi dalla Russia.

Il punto, come osserva un rapporto di università inglesi pubblicato a ottobre, è che il metano ha un effetto di surriscaldamento molto più elevato della CO2, anche se la sua persistenza nell’atmosfera è decisamente inferiore, 10-20 anni contro alcuni secoli per l’anidride carbonica.

I ricercatori inglesi, quindi, ritengono che per limitare l’aumento medio delle temperature terrestri a 1,5-2 gradi centigradi, come stabilito dagli accordi di Parigi, sia necessario limitare fortemente la produzione e il consumo di gas naturale già nei prossimi anni.

Un altro documento, pubblicato in questi giorni da un’organizzazione no-profit americana (Environmental Defense Fund), ha analizzato le attività dell’industria degli idrocarburi in New Mexico, scoprendo che producono un inquinamento atmosferico paragonabile a quello di una dozzina di grandi centrali a carbone.

Lo studio, infatti, ha considerato non solo le emissioni “fuggitive” di metano, le perdite vere e proprie dai sistemi di trasporto e stoccaggio, ma anche le emissioni intenzionali dovute al venting (rilascio di gas incombusto nell’atmosfera) e al flaring (combustione del gas tramite fiamma sulla sommità dei pozzi). Le emissioni totali sono pari a 570.000 tonnellate/anno nel solo New Mexico.

Certo, come abbiamo osservato anche su queste pagine, le emissioni del ciclo di vita del gas naturale sono stimate in circa 410-650 grammi di CO2 equivalente per kWh negli impianti a ciclo combinato, una forchetta molto inferiore a quella del carbone (710-950 gCO2eq/kWh), ma considerevolmente più elevata rispetto alle tecnologie rinnovabili (2-180 gCO2eq/kWh).

Tra l’altro, stimare con esattezza le emissioni non-intenzionali di metano, dovute a perdite e fughe, resta molto difficile. Climate Action Tracker, già qualche anno fa, aveva affermato che “sostituire il carbone con il gas chiaramente non può essere un’opzione, in quanto ridurrebbe il surriscaldamento globale solo di circa 0,1 gradi” (vedi QualEnergia.it).

La soluzione al problema climatico, a ben vedere, dovrebbe puntare maggiormente sulle fonti rinnovabili e sui sistemi di accumulo, oltre che al risparmio e all’efficienza energetica, lasciando al gas un ruolo il più possibile marginale, a integrazione o supporto dell’output crescente delle tecnologie pulite come l’eolico e il fotovoltaico.

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