Accordo di Parigi, il bilancio a due anni di distanza

Con la Cop 23 di Bonn appena iniziata, una riflessione su quanto si è fatto finora: l'accordo firmato alla Cop 21 ha indubbiamente generato un positivo impulso globale con risultati che pochi si aspettavano. Ma per evitare esiti climatici disastrosi occorre accelerare decisamente.

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A due anni dalla firma dell’accordo di Parigi sul clima e a un anno dalla sua rapidissima ratifica è interessante analizzare i cambiamenti avvenuti in alcuni Paesi chiave.

Ricordiamo che la critica principale al trattato sostitutivo del Protocollo di Kyoto riguardava la mancanza di obiettivi legalmente vincolanti. Ma c’è di più, l’insieme dei piani presentati a Parigi definiva uno sforzo ancora ben lontano dalla traiettoria in grado di limitare l’incremento delle temperature sotto gli 1,5-2 °C. Proprio per questo motivo è stata prevista una verifica ogni 5 anni per innalzare gli obiettivi nazionali.

Resta il fatto che l’adesione di tutti i Paesi del mondo (eccetto la Siria in guerra e il Nicaragua che ha deciso di firmare proprio in questi giorni) aveva rappresentato una decisa scossa. Kumi Naidoo,  direttore di Greenpeace International, era arrivato ad affermare: «I combustibili fossili sono stati posti dalla parte sbagliata della storia».

Vediamo dunque cosa è cambiato in termini di emissioni di gas climalteranti e di politiche in questo biennio.

Partiamo ovviamente dalla Cina che con il suo 29% delle emissioni di CO2 è alla testa dei Paesi inquinatori. L’impegno di Pechino era di arrivare ad un picco della produzione di anidride carbonica entro il 2030 per poi avviare una sua riduzione.

In realtà, le emissioni negli ultimi tre anni sono rimaste stazionarie, grazie anche alla cancellazione di oltre cento nuove centrali a carbone e all’incredibile accelerazione delle rinnovabili.

Nel biennio 2016-17 la Cina ha installato metà della potenza fotovoltaica mondiale, tanto che l’obiettivo governativo di raggiungere 100 GW nel 2020 è già stato superato. Un altro settore dove si è affermata la leadership cinese è quello della mobilità elettrica, con mezzo milione di auto vendute nel 2016 e 0,7 milioni previste quest’anno.

Queste dinamiche fanno ritenere che il picco della CO2 potrebbe essere raggiunto già nella prima metà del prossimo decennio.

Anche passando all’India, terzo responsabile delle emissioni, si riscontra un deciso cambio di passo.

Basti dire che, mentre il governo ipotizzava un 60% di potenza elettrica da centrali termoelettriche fossili nel 2027, ora la stima è calata al 43% grazie a una frenata delle centrali a carbone e ad una accelerazione sulle rinnovabili.

Le emissioni sono ancora in crescita ma, invece di raggiungere il tetto di 6 miliardi di tonnellate al 2030, potrebbero fermarsi a 5 miliardi.

C’è poi l’incognita degli Usa che, con il 14% delle emissioni mondiali, si situano al secondo posto tra Cina e India.

I segnali che vengono da oltreoceano sono divergenti. Le posizioni di chiusura del presidente Donald Trump, che ha iniziato a smantellare la politica climatica del suo predecessore Barack Obama minacciando anche di lasciare l’Accordo di Parigi, hanno generato per reazione un attivismo climatico da parte di imprese, città e Stati che potrebbe compensare l’offuscamento delle politiche federali.

Basti ricordare le decine di città che hanno definito nei mesi scorsi un percorso per arrivare a soddisfare il 100% della domanda elettrica con le rinnovabili.

Significativo poi il calo dell’uso del carbone. Tra il 2012 ed oggi sono ben 531 gli impianti che hanno chiuso o di cui è stata annunciata la chiusura. Nel 2016 si sono registrate le più basse emissioni degli ultimi 20 anni e il trend dovrebbe proseguire aiutato dai prezzi in calo delle rinnovabili e dallo sviluppo dello shale gas.

Uno sguardo infine sull’Europa. Da sempre considerata portabandiera della battaglia climatica, le sue posizioni sono ora meno incisive a causa delle contraddizioni interne.

Le attuali politiche consentiranno di superare gli obiettivi del 2020 ma sono ancora insufficienti per il taglio del 40% delle emissioni previsto per il 2030.

La realtà è infatti molto variegata, con Paesi come la Polonia che frenano ed altri, come la Svezia, che intendono diventare net-zero carbon.

Da notare, dopo gli exploit europei nelle rinnovabili, gli interessanti segnali sul fronte della mobilità elettrica, con  Regno Unito, Francia, Norvegia e Olanda che prevedono di vietare la vendita di auto a benzina e diesel tra il 2025 e il 2040.

Insomma, l’Accordo di Parigi ha indubbiamente generato un positivo impulso globale con risultati che pochi si aspettavano. Ma, certo, per evitare esiti climatici disastrosi occorre accelerare decisamente le politiche di intervento.

Anche nel nostro Paese, che negli ultimi anni ha visto un rallentamento della corsa delle rinnovabili ed un aumento della CO2, le prospettive sembrano migliori.

La nuova Strategia energetica nazionale – che prevede l’abbandono delle centrali a carbone entro il 2025, l’avvio della riqualificazione energetica spinta del nostro inefficiente patrimonio edilizio, la copertura di metà della generazione elettrica con le rinnovabili insieme a 5 milioni di auto elettriche su strada NEL entro il 2030 – mette infatti le basi per una inversione di tendenza.

(L’intervento di Gianni Silvestrini, direttore scientifico di Kyoto Club e di QualEnergia, è apparso sul Il Sole 24 Ore di oggi, martedì 7 novembre. Lo ripubblichiamo qui con il consenso del quotidiano confindustriale)

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