Come decarbonizzare i trasporti in Italia?

C'è ancora una scarsa consapevolezza dei ministeri, ma anche degli stakeholder, sulla grandezza degli sforzi da attivare per decarbonizzare il settore dei trasporti in Italia. Anche la SEN si dimostra troppo timida. In questo articolo, pubblicato sulla rivista QualEnergia, alcune teorie su come decarbonizzare il settore.

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La decarbonizzazione del mondo dei trasporti, obiettivo che si interseca con quanto necessario per migliorare la qualità dell’aria, ridurre l’incidentalità e restituire libertà di movimento a tutte le fasce sociali, va inquadrata come elemento centrale necessario per contrastare i cambiamenti climatici ed evitarne le loro più nefaste conseguenze.

La Legge n. 204 di novembre 2016 rende vigente in tutte le sue parti l’Accordo di Parigi sul clima, e quindi impegna il nostro Paese a predisporre un ambizioso “contributo determinato a livello nazionale” (Cdn), in linea con l’obiettivo di far rimanere “ben al di sotto” dei 2° C il riscaldamento globale e di fare ogni sforzo per contenerlo a 1,5° C.

Dall’approvazione di tale legge, non si può avere in Italia un piano settoriale che non rispecchi, con la dovuta ambizione e in adeguatezza alle capacità tecnologiche del Paese, questa direzione strategica.

La nuova Strategia energetica nazionale (SEN), che segue a distanza di pochissimi anni quella precedente del 2013, è stata resa necessaria appunto da tale novità. Occorre in particolare rispondere alla richiesta dell’Unione Europea di ripartizione del Contributo collettivo comunicato alle Nazioni Unite (-40%).

Con un negoziato interno tra Commissione e Paesi membri, i cui esiti andranno riportati alle Nazioni Unite ai sensi dell’art. 4 comma 16 dell’Accordo, l’Italia deve ridurre le emissioni di almeno il 33% nei settori non europeizzati, tra cui i trasporti, sui quali agiscono le policy nazionali e sulle quali è quindi pertinente discutere (su quelli europeizzati la discussione è inevitabilmente collettiva).

Contrariamente alla maggioranza dei paesi del mondo, il nostro non ha a suo tempo discusso, elaborato e approvato un suo autonomo “Contributo determinato a livello nazionale”, ma ha delegato all’Unione Europea tale compito, come risulta dall’art. 4 della legge.

Questo, se da un lato ha velocizzato la decisione e rispecchiato il nostro europeismo, ha prodotto un certo scollamento tra le diverse discussioni settoriali e l’obiettivo complessivo nazionale. E quindi c’è ancora una scarsa consapevolezza degli stakeholder e degli stessi ministeri sull’ordine di grandezza degli sforzi da attivare, oggi largamente sottovalutati.

Occorre una transizione verso settori a zero emissioni molto più veloce di quanto si attendano gli osservatori settoriali, soprattutto nei trasporti. La stessa proposta di nuova Sen del 12 giugno 2017, pur citando correttamente l’Accordo di Parigi, pone come scenario nazionale base un rallentamento delle riduzioni delle emissioni, invece dell’ovvia accelerazione implicata dall’Accordo.

In particolare per i trasporti, nello scenario base (Bau) si accontenterebbe di una riduzione delle emissioni del 3% in quindici anni, pur avendo conseguito una riduzione del 17% nel decennio 2005-2015. Così lo scenario “di policy intermedio”, obiettivo delle politiche di riduzione, può permettersi un più coraggioso calo del 22% (cioè almeno 23 Mton/CO2eq) e una quota di “rinnovabili trasporti” al 17% – 19% al 2030, tripla rispetto al 6,4% del 2015.

Già tanto, rispetto alla precedente Sen, ma ancora ben al di sotto degli impegni internazionali presi a Parigi.

Vi è una pesante discrepanza tra i Contributi indicati nel 2015, prima del vertice di Parigi, e quanto la scienza richiede per rimanere ben sotto i 2° C e, ancor di più, se si vuole rimanere nel “carbon budget”, cioè nella quantità assoluta di carbonio che si può emettere per limitare a 1,5°C il riscaldamento, già nel 2018 ci dovrà essere un nuovo contributo determinato a livello nazionale, che innalzi tale valore.

L’aggiornamento di Carbon Brief di maggio 2016 indicava come determinante per rimanere sotto 1,5 °C di riscaldamento, la riduzione delle emissioni dei prossimi sei anni: quindi entro il 2022-2023.

Solo se in questi pochi anni si otterranno riduzioni delle emissioni annuali del 13-18% medio globale, crescono le probabilità di rimanere entro tale carbon budget, senza quindi dover ricorrere a decenni di emissioni negative globali, che richiedono tecnologie oggi non esistenti e presentano gravissimi problemi di costo e compatibilità ambientale.

Ecco perché, specie in tema di trasporti, va costruito lo scenario che potremmo chiamare di “policy avanzate“, di cui quest’articolo prova a delineare alcuni punti fermi. Stime modellistiche preliminari, condotte nell’ambito di una ricerca presentata alla Conferenza “1.5 Degrees: Meeting the Challenges of the Paris Agreement” di Oxford, indicano specificamente per l’Italia una riduzione al 2030 dell’86% delle emissioni nel settore dei trasporti rispetto al 2012.

In sostanza si tratta di decarbonizzare totalmente il settore. La variabile cruciale è il numero di km percorsi con modalità a zero emissioni, che per raggiungere l’86% nel 2030 devono plausibilmente passare per un 25% al 2020 e un 45% al 2025. In sostanza, entro il 2030 devono sparire i veicoli inquinanti, sostituiti da modalità a zero emissioni, mettendo da subito in pratica le più avanzate tra le raccomandazioni degli stakeholder della Road Map 2030 della mobilità sostenibile).

I prezzi delle batterie potrebbero riservare entro il 2020, una notevole sorpresa positiva, anche grazie alla Gigafactory di Tesla, alimentata a fonte rinnovabile. Si stima che intorno ai 100 dollari a kWh i veicoli elettrici avranno un prezzo paragonabile a quelli convenzionali, spiazzando un diesel che, per garantire prestazioni ambientali più elevate, diventa a sua volta sempre più caro.

In Italia, per il decollo della mobilità elettrica non basta affidarsi alle dinamiche internazionali, come, incredibilmente, afferma la Sen: lo scenario a “quasi” totale decarbonizzazione al 2030 è stato, sino ad ora, escluso da qualsiasi previsione e quindi mai seriamente definito, sotto qualsiasi punto di vista: delle tecnologie realisticamente disponibili, delle capacità industriali, delle implicazioni sociali e dei comportamenti di mobilità, delle policy nazionali e locali.

Tecnologie “quasi” zero

In primo luogo le tecnologie disponibili. Se si considera l‘anzianità media del parco veicolare, quasi dieci anni per le automobili e quasi vent’anni per gli autocarri e autobus, non è ragionevole una sostituzione dei mezzi di trasporto con tecnologie e carburanti “di transizione”, a basse emissioni, alimentati a Gpl e metano fossile, possono avere uno spazio di mercato solo per una durata di vita media decisamente più ridotta dell’attuale, perché, come chi acquista veicolo diesel (o benzina) oggi dovrebbe essere informato dal governo del ragionevole rischio di non poterlo più usare per la durata utile dell’investimento.

La figura di seguito illustra le emissioni chilometriche reali di CO2 per un auto di media cilindrata basata sullo standard Euro5, frutto del lavoro di confronto tra stakeholders del Tavolo di lavoro “Road Map 2030.

Con gli Euro 6 le emissioni medie di CO2 dei diesel sono cresciute e hanno superato quelle della benzina. Come si vede le uniche tecnologie in grado di garantire livelli di emissioni compatibili sono l’elettrico (sempre più rinnovabile) e il biometano. La transizione a una mobilità a zero emissioni è quindi già iniziata, non prevede più tappe intermedie, non può disporre di tecnologie o carburanti che escludono un nuovo ricambio totale del parco mezzi circolante entro il 2030 (se non elettrico e biometano), compatibili con un Accordo di Parigi (1,5°C): persino l’ibrido benzinaelettrico, non dotato di sufficiente autonomia in solo elettrico, rischia l’obsolescenza prematura.

Seconda generazione

Per limitare il rischio di competizione con la produzione alimentare, l’Europa promuove i biocarburanti di nuova generazione (o “avanzati”), che sono ricavati da scarti agroalimentari, prodotti quali alghe, colture di rotazione e rifiuti organici, impianti di trattamento dei liquami.

Il DM 10 ottobre2014 impone l’immissione di una quota progressivamente crescente di biocarburanti avanzati, dal 2018.

Determinante potrà essere l’apporto, anche a breve periodo, della produzione di biometano per l’autotrazione, per il quale si attende ancora la firma del decreto che ne garantisca lo sbocco di mercato: l’attuale produzione di biogas, destinato alla produzione elettrica, sarebbe sufficiente per alimentare (se sottoposto ad upgrading) il doppio dell’attuale flotta di veicoli a metano.

Nei primi anni (2018-2022) sarebbe sufficiente una produzione aggiuntiva di 3 miliardi Nm3/anno di biometano, a cui si potrebbe aggiungere la conversione (circa il 25%) di parte degli impianti di biogas usati ora per la produzione elettrica con rendimenti modesti.

Si renderebbero così disponibili 3,7 miliardi Nm3/anno di biometano da autotrazione, il 10% dei carburanti, grazie agli incentivi già previsti per i biocarburanti “avanzati”, quale obbligo dei distributori, senza costi per lo stato. È possibile poi incrementare la produzione di biometano destinato ai trasporti sino a 10 miliardi di Nm3/anno (il 25% dell’attuale consumo di carburanti), un obiettivo raggiungibile grazie alla disponibilità di investitori privati (agricoltura e utility) non di molto superiore a quelli mobilitati nel quadriennio 2010 ­ 2013.

La produzione potrebbe anche sostentarsi senza incentivi, come in Svizzera, a condizione che si decida di esentare da tasse e accise i carburanti rinnovabili. Quali mezzi per il biometano e a quali costi? Ancora l’anno scorso (2016) si sono immatricolati in Italia 44 mila auto a metano, più della metà d’Europa.

Ma su 49 milioni di veicoli circolanti in Italia, poco meno di un milione sono alimentabili a metano (900 mila auto, 80 mila autocarri e 4 mila autobus): è il parco veicolare più grande al mondo, frutto di investimenti (privati, flotte aziendali, trasporto pubblico) e di incentivi pubblici.

L’industria nazionale (Fiat e Iveco) ha avuto un ruolo primario. Usare biometano è l’unico modo per valorizzare un primato italiano in futuro. Ma ­ crediamo – non tanto puntando su milioni di automobili con emissioni inquinanti locali analoghe alla benzina e ormai destinate a soccombere nella competizione con l’elettrico piuttosto convertendo al biometano compresso o meglio liquefatto, con nuovi mezzi bio-Gnl (biometano liquefatto a basse temperature) adibiti al trasporto pubblico interurbano, al trasporto merci pesante, mezzi agricoli e, soprattutto navali, a cominciare da quelli lacuali e della laguna veneta.

È ragionevole una trasformazione obbligata di gran parte del parco nell’arco di tre o cinque anni, cominciando dai veicoli più vecchi di dieci anni e il divieto di circolazione nelle aree urbane o applicando pedaggi autostradali o accessi ai porti molto più cari.

Il trasporto pesante su strada incide (dati Agenzia Europea Eea) per il 19% delle emissioni del settore dei trasporti: in Italia sono immatricolate 150mila motrici. Le società di autotrasporto stanno già realizzando la prima rete di distributori a Gnl (gas liquefatto, oggi fossile).

Incentivare la sostituzione di 100 mezzi pesanti, dotandoli di serbatoi criogenici a biometano liquido, prodotto nei principali impianti di biogas/biometano da scarti organici nazionali è senz’altro più conveniente di qualsiasi incentivo all’acquisto di 4 milioni di auto a gas. Nel medio e lungo termine, arriveranno a maturità tecnologica i motori fuel cell e a idrogeno di origine rinnovabile: in comune con il ciclo del biometano liquido sono i fondamenti tecnologici del trasporto e dello stoccaggio e forse anche una parte della produzione d’idrogeno rinnovabile, come fase intermedia della digestione anaerobica degli scarti organici.

Vale proprio la pena promuovere ricerca e sviluppo in queste tecnologie.

Non solo elettrico

Il resto della mobilità a motore dovrà migrare quasi totalmente verso l’elettrico (plug-in, full eletric, fuel cell). Abbiamo già affrontato su queste pagine (QualEnergia n 2/2017) il tema della sostenibilità sociale del cambiamento negli stili di mobilità verso la sostenibilità.

La pura sostituzione di 37 milioni di automobili, 4 milioni di camion e furgoni, mezzi speciali, scooter e moto, in elettrico comporterebbe eccessivi costi a famiglie, imprese e Stato, lasciando inalterati i problemi di traffico, incidenti e costi infrastrutturali.

Mentre è insito nell’evoluzione attuale tecnologica dei mezzi di trasporto (elettrici, connessi, sicuri e automatici) e nell’evoluzione dei comportamenti dei cittadini mobili, una trasformazione più radicale del sistema della mobilità delle merci e delle persone.

Lorien e Legambiente, lanciando il 29 maggio scorso il “Forum QualeMobilità“, hanno reso pubblico un osservatorio che intende mappare semestralmente gli stili di mobilità degli italiani: già il 32% sono “multi-mobili”, si spostano molto scegliendo tanti mezzi diversi, conoscono e usano la sharing mobility, sono disponibili a spendere di più per l’elettrico, ma a patto che sia più comodo.

Usano ancora molto l’auto di proprietà, quando conviene o in mancanza di alternative. Sono ancora una minoranza (ma non in città) ma in crescita e comunque sempre più numerosi del 17% degli italiani “mono-mobili”, che si spostano molto e solo con lo stesso mezzo (95% auto). Gli altri si spostano moderatamente (31%) e con i mezzi pubblici (21%). È evidente che l’azione politica farà la differenza.

Ma per promuovere l’intermodalità negli spostamenti delle persone, non basta una campagna di incentivi, vanno promosse politiche nazionali e locali di ammodernamento dell’offerta di servizi pubblici, sharing mobility, micromobilità individuale (elettrica, ciclabile e pedonale), ridisegno degli spazi pubblici (strade, piazze, aree di sosta) e, in prospettiva, delle funzioni urbane, delle città grandi e piccole.

Formuliamo perciò un’ipotesi di piano “Parigi 1,5°C” per l‘Italia 2030 con metà delle automobili circolanti (18 milioni), ma tutte ibride-elettriche, usate più intensamente di oggi (perché a noleggio, in sharing e pooling), molti più mezzi elettrici leggeri (15-20 milioni) per la micromobilità personale o i servizi di prossimità e un ruolo maggiore, soprattutto in ambito urbano, dei mezzi pubblici e del trasporto su ferro.

Si tratta di valori elevati, specie se confrontati con quelli sostenuti dai costruttori d’auto (Anfia vede solo l’1% di veicoli elettrici nel venduto 2020), ma vicini alle previsioni di case come Toyota (66% di ibridi, plug-in ed elettrici al 2030) o Bmw (riduzione del tasso di motorizzazione nelle città europee del 60-80%).

Ricambio con riduzione

Se dunque l’obiettivo non è più la sostituzione (rottamazione) di qualche milione di auto, ma la sostituzione totale e dimezzamento del parco automobilistico, va riscritta la fiscalità dei trasporti: i 37 miliardi di euro di entrate statali delle accise si ridurranno progressivamente al lumicino e si dovrà metter mano alla tassa di possesso (bollo) oggi molto, eccessivamente, bassa. E la contemporanea offerta, incentivata proprio in ragione delle risorse aggiuntive rese disponibili, di un’alternativa di servizi (abbonamenti), noleggi e mezzi a emissione zero sostitutivi.

La tassa automobilistica è oggi un tributo regionale, che grava sugli autoveicoli e motoveicoli in ragione della potenza del motore e della portata. La devono pagare tutti i proprietari di veicoli, a prescindere dall’uso: produce un gettito di 6 miliardi (in media appena 162 euro a veicolo) e presenta un elevato tasso di evasione (in Sicilia il 20%).

Oggi un pick up, omologato come autocarro, in molte regioni, paga qualche decina di euro all’anno. Un furgone con carico maggiore di 3,5 tonnellate 135 euro. Un autoarticolato, superiore alle 12 tonnellate di carico, arriva a malapena a 1.000 euro, niente a paragone dell’occupazione di suolo pubblico per i tavolini di un bar, in un quartiere periferico di Milano, che costa 120 euro a metro quadro, 2.400 euro per 20 metri quadri.

Se l’Italia detiene uno dei più alti tassi di motorizzazione al mondo è anche perché tenere la vecchia auto non costa nulla. Tassare l’acquisto di nuove auto, anche quelle lussuose e potenti, rischia solo di incentivare l’usato più inquinante. Meglio allora incrementare la tassa di possesso dei 49 milioni di veicoli a motore in circolazione in misura progressivamente proporzionale all’inquinamento generato: se la tassa fosse commisurata all’inquinamento, oltre all’ingombro e all’usura dell’infrastruttura, i camion più vecchi dovrebbero pagare anche decine di volte più di una utilitaria euro 5 o 6, le auto diesel Euro 0 anche dieci volte di più di una utilitaria a benzina di oggi.

Si possono esentare, come oggi, i veicoli per disabilità, i veicoli storici (trent’anni). Esentati, ma solo per i primi cinque anni e come misura incentivante provvisoria quelli ibridi ed elettrici. Per tutti gli altri, la tassa di possesso deve costare annualmente di più della rottamazione e radiazione del veicolo: possedere un’auto è un costo (spazio pubblico, aria pulita, sanità, controlli e polizia stradale, servizi…) per la collettività nazionale.

La mobilità è un diritto, il possesso di un mezzo di trasporto è anche una responsabilità e un costo sociale (inquinamento, suolo pubblico, infrastrutturazione, vigilanza, incidentalità, sanità, ecc.). Ecco l’ipotesi assunta ad esempio: per il primo anno, un modestissimo aumento della tassa automobilistica di 5 euro per ogni classe (Euro) di emissione, quindi 5 euro per l’Euro 6 e 35 euro per l’Euro 0 per tutte le auto a benzina, gpl/benzina e gasolio (esenti per ora il metano nella prospettiva del biometano, e le ibride elettriche).

Nell’anno successivo l’aumento raddoppia (10 euro per ogni classe di inquinamento) il terzo triplica. Si tratta di un aumento medio annuo della tassa automobilistica del 15% circa, ma crescente, in modo da indurre i proprietari del mezzo di pianificare la sua dismissione e la possibile alternativa (abbonamento, noleggio, bici elettrica o auto a basse emissioni).

Per i veicoli commerciali si propone un aumento maggiore: si tratta di mezzi di lavoro che oggi pagano pochissimo, spesso già ammortizzati da anni che provocano, se usati intensamente, un inquinamento rilevante. Proponiamo un aumento della tassa annuale tra i 20 euro (Euro 6) e i 140 euro (Euro 0) per i veicoli commerciali leggeri e gli speciali (dalle betoniere e alle friggitorie), il doppio per gli autocarri pesanti.

Infine, nel gettito previsto del secondo e terzo anno, è stato previsto un incremento significativo delle dismissioni per i veicoli più vecchi. Negli ultimi anni sono stati radiati solo il 4% all’anno di Euro 0, abbiamo previsto una radiazione del 10%. Con queste ipotesi, il gettito reso disponibile è di un miliardo il primo anno, due il secondo, tre il terzo, da impiegare immediatamente non solo e non tanto per incentivare l’acquisto di nuove auto esclusivamente a “quasi zero emissioni”, ma soprattutto per politiche e servizi sostitutivi all’auto di proprietà (Tpl, micromobilità, ciclabilità).

Politiche locali: più liberi, meno proprietari

Lo strumento più interessante e riconosciuto (nazionale ed europeo) a disposizione delle amministrazioni comunali per rendere sostenibile la mobilità urbana sono i Pums (Piani Urbani per la Mobilità Sostenibile). Sino ad ora la diffusione e la cogenza dei Pums, che sono uno strumento volontario, non vincolato a risultati, è stata frenata dall‘incertezza sulle linee di finanziamento delle loro azioni, nonostante l’interesse generale di Bei (Banca Europea degli Investimenti) a finanziare progetti urbani.

Nelle linee guida europee, particolare attenzione è dedicata, non solo alla pianificazione integrata delle azioni e alla partecipazione, ma anche alla definizione condivisa di benefici, d’indicatori e di obiettivi: indicatori per valutare l’efficienza e l’efficacia delle azioni intraprese e target che permettano il monitoraggio dei progressi, di anno in anno, verso il raggiungimento degli obiettivi.

La novità è la decisione del governo italiano di indicare con un decreto vincolante chiari obiettivi, validi per tutte le città, delle strategie di pianificazione. È quello che Legambiente, Fiab e un altro centinaio di associazioni del coordinamento “Mobilità Nuova” chiedono da anni.

Ma, oltre all’attenta definizione di obiettivi strategici validi per tutte le città (come ad esempio la riduzione delle emissioni) vengano anche previsti poteri alle regioni e comuni per favorire la riduzione della motorizzazione privata (road pricing e divieti d’accesso, pagamento della sosta anche ai residenti, low emission zone, ridisegno dello spazio pubblico, pedaggi stradali ed autostradali proporzionali all’inquinamento). E, soprattutto finanziamento dei piani e dei servizi di mobilità nuova, in funzione dei risultati attesi ed effettivamente raggiunti l’anno successivo.

Secondo il principio che se una città che approva un piano ambizioso e sfidante e riesce a realizzarlo, va proporzionalmente premiata. Se non riesce, un nuovo sindaco o un nuovo potere sostitutivo intervengono con un nuovo piano straordinario, investimenti e misure vincolanti. Ne va della libertà e della mobilità per tutti. Perché? Perché spetterebbe invece alle Regioni e allo Stato stabilire, salvo eccezioni, i tempi strategici dell’uscita progressiva di scena dei mezzi a combustibili fossili: dal 2025 tutte le flotte di servizi di prossimità, taxi, sharing, noleggio e dal 2026 tutti i veicoli più vecchi di dieci anni.

Dal 2030, divieto all’immissione sul mercato di veicoli benzina, diesel e Gpl e chiusura di tutti i distributori di combustibili fossili. Salvo possibilità dei sindaci e presidenti di Regioni di anticipare i divieti di circolazione, come stanno già facendo in Italia e nel mondo.

L’articolo è stato originariamente pubblicato sul n.3/2017 della rivista bimestrale QualEnergia, con il titolo “Strategia in movimento”

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