Quanto e cosa rischia la finanza globale con i cambiamenti climatici

Le raccomandazioni della task-force istituita due anni fa per contrastare il climate-risk: fondamentale la divulgazione chiara, completa e tempestiva di dati e informazioni sulla natura degli investimenti. Come reagire alle minacce ambientali che incombono su tutti i settori industriali.

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Quali sono i possibili impatti finanziari dei rischi climatici? Come devono reagire gli investitori – banche, governi, fondi pensione e così via – per non rimanere con un pugno di stranded asset (letteralmente: beni incagliati), vale a dire infrastrutture obsolete e non più remunerative?

Sono domande che le aziende di tutto il mondo hanno iniziato a porsi con maggiore insistenza dopo gli accordi di Parigi, quando circa 200 paesi hanno concordato l’impegno di limitare il surriscaldamento terrestre entro 2 gradi centigradi nei prossimi decenni.

Proprio a Parigi il Financial Stability Board, organismo internazionale che promuove la stabilità finanziaria, aveva istituito un gruppo di 32 esperti, guidati dal politico e imprenditore USA Michael Bloomberg , la Task Force on Climate-related Financial Disclosures (TCFD), per approfondire quanto l’economia planetaria sia esposta alle minacce ambientali.

Nelle raccomandazioni finali appena pubblicate (documento allegato in basso), la task-force ricorda che il valore degli investimenti divenuti rischiosi, a causa dei cambiamenti climatici, ammonta a parecchie migliaia di miliardi di dollari.

La tabella qui sotto riassume che cosa intenda la task-force per rischi climatici connessi alle attività delle aziende, ad esempio: incremento dei prezzi della CO2 (magari attraverso una carbon tax globale come quella proposta da Joseph Stiglitz e Nicholas Stern), requisiti più severi di efficienza dei prodotti, extra costi per passare a tecnologie meno inquinanti, cambi delle abitudini dei consumatori, senza dimenticare i rischi “fisici” dovuti a eventi estremi come alluvioni, siccità prolungate, eccetera.

Molteplici sono anche gli impatti finanziari conseguenti, in particolare: diminuzione dei ricavi, aumento dei costi operativi, chiusura anticipata di determinati impianti, soprattutto quelli che sfruttano le risorse fossili (miniere, oleodotti, piattaforme offshore, centrali a carbone), perdita di reputazione.

Il rovescio di questa medaglia “sporca” è dato dalle opportunità della finanza verde, perché la transizione verso un’economia a basso tenore di carbonio richiederà nuovi investimenti stimati in circa mille miliardi di dollari ogni anno.

La chiave per affrontare una situazione così complessa è la divulgazione (disclosure) chiara, completa, tempestiva e ripetuta a intervalli regolari di tutti i dati e le informazioni “sensibili” dal punto di vista ambientale. Lo schema seguente sintetizza le raccomandazioni della task-force suddivise in quattro aree: governo aziendale, strategie, gestione del rischio, indicatori e obiettivi (clicca per ingrandire).

Come si vede, non basta divulgare le emissioni di CO2 correlate alle proprie attività, ma occorre descrivere in che modo l’azienda intende affrontare e risolvere i rischi climatici – si parla di resilienza, la capacità di adattarsi alle mutate condizioni ambientali – considerando differenti scenari di surriscaldamento globale, soprattutto quello parigino dei 2 gradi.

Le linee-guida contenute nel documento del TCFD, quindi, tracciano uno schema volontario di divulgazione pensato per le varie organizzazioni finanziarie – banche, compagnie assicurative, gestori di fondi – e per diversi settori industriali, in particolare i trasporti, l’energia, l’edilizia e l’agricoltura.

D’altronde, precisano gli esperti della task-force, il rischio climatico è davvero trasversale, nel senso che non è diversificabile perché interessa qualsiasi comparto d’investimento, nessuno escluso.

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