Gli accumuli saranno utili pure per la generazione da fonti fossili?

Uno studio statunitense spiega come un’ampia diffusione dello storage elettrico, con un conseguente calo dei suoi costi, potrebbe anche costituire un ostacolo per un sistema elettrico basato sulle energie rinnovabili, rendendo più competitive le fonti fossili grazie ad un risparmio di combustibile.

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Inutile spiegare ai lettori di QualEnergia.it che gran parte delle possibilità di riuscita della transizione energetica futura, basata sulle rinnovabili, si fondano sulle possibilità di installazione su una scala enorme di nuovi sistemi di accumulo, che compensino la non programmabilità della generazione elettrica da sole e vento.

Normalmente, però, si pensa che la diffusione dei sistemi di accumulo sarà strettamente connessa a quella delle rinnovabili, in quanto solo quest’ultime beneficeranno della loro diffusione.

In realtà non è così: storicamente, per esempio, la grande diffusione dello stoccaggio elettrico tramite in bacini idroelettrici, in Paesi come Italia, Francia o Giappone, è legato alla diffusione del nucleare, che funziona meglio e con maggior profitto a potenze costanti e, quindi, ha interesse ad avere la possibilità di “farsi aiutare” dall’accumulo idrico, che interviene assorbendo energia nei momenti in cui produce troppo per la domanda, e rilascia energia quando invece la domanda supera quella prodotta dal nucleare.

Adesso però gli economisti Itziar Lazkano dell’Università del Wisconsin, Linda Nøstbakken della Scuola norvegese di economia e Martino Pelli, della canadese Université de Sherbrooke, hanno evidenziato un altro legame fra accumuli e generazione elettrica a combustibili fossili, che fa sia ben sperare per il futuro dello sviluppo di sistemi di storage elettrico massivo ma che ci avverte che lo sviluppo di tali apparecchiature e infrastrutture, se diventeranno molto economici, potrebbe anche costituire un imprevisto ostacolo per il sistema elettrico a fonti rinnovabili.

Il percorso della ricerca dei tre economisti, intitolata “From fossil fuels to renewables: The role of electricity storage” (vedi allegato in basso) e pubblicata sulla European Economic Review, segue un percorso piuttosto originale: verificare le connessioni fra i brevetti validi per Europa, Usa e Giappone, rilasciati fra il 1960 e il 2011 nei settori dell’accumulo elettrico, delle energie rinnovabili e delle energie convenzionali, alle più importanti società del mondo nel campo dell’ingegneri e della produzione energetica.

Lazkano e colleghi hanno trovato 19.232 brevetti legati agli accumuli, 178.841 sulle rinnovabili e 154.041 sulla generazione elettrica a fossili.

Ma la cosa più interessante era la concatenazione fra i primi e gli altri due: le società che avevano ottenuto un brevetto per lo storage era più probabile che negli anni successivi ottenessero brevetti per le rinnovabili intermittenti e per le fonti convenzionali baseload, rispetto alle società che non avevano fatto ricerca sugli accumuli.

In particolare l’aumento di possibilità di produrre un nuovo brevetto, nei due anni successivi all’ottenimento di uno per l’accumulo, era dell’1,09% per le rinnovabili e dello 0,65% per le fonti a fossili.

«Questo indica – dice Lazkano – che gli studi sugli accumuli stimolano la ricerca di innovazione in tutte le fonti energetiche. Prima di tutto, come ovvio, nelle rinnovabili, che hanno il problema dell’intermittenza, ma anche nelle fossili, e in particolare in quelle, come il carbone, che hanno il compito di generare elettricità costante durante il giorno. Il fatto però che la ricaduta verso le rinnovabili sia quasi doppia di quella verso le fossili, indica anche che le seconde beneficeranno di una innovazione tecnologica che si sta sviluppando soprattutto nel mondo delle rinnovabili».

Ma in che modo le fonti fossili potrebbero trarre benefici dalle nuove tecnologie per l’accumulo?

Un esempio per capirlo lo ha dato di recente la stessa Enel, installando una batteria Siemens da 600 kWh  a Ventotene; un’isola che riceve la sua elettricità esclusivamente da una centrale diesel.

La batteria consentirà di evitare che i gruppi diesel aumentino e diminuiscano la loro potenza per seguire picchi e valli dei consumi e quindi che debbano aumentare o diminuire spesso il numero dei giri, uscendo dal regime ideale di massima coppia e dunque massima efficienza.

In sintesi: le batterie accoppiate alle centrali elettriche a fossili fanno risparmiare combustibile e, pertanto, denaro.

Il che potrebbe innescare un circolo virtuoso: più si trovano soluzione innovative ai sistemi di accumulo, grazie alla ricerca, e più il costo dello storage diminuisce, più il suo uso si diffonderà non solo fra le rinnovabili, ma anche, e forse soprattutto, nelle centrali a fossili baseload (che costituiscono ancora la grande maggioranza delle generazione elettrica mondiale), e ciò farà sì che una quantità di investimenti crescente si riverserà nella ricerca dell’accumulo, chiudendo quel circolo virtuoso.

In altre parole, nel prossimo futuro, a spingere verso la diffusione dei sistemi di accumulo, e non solo delle batterie, più adatte a centrali di potenza medio-bassa, ma anche aria compressa o idrogeno o volani oppure forme innovative di accumulo per pompaggio (per esempio in miniere abbandonate o in bacini scavati su alture che danno sul mare), non saranno solo i produttori da solere ed eolico, ma anche i cosidetti “nemici del clima” del carbone (fonte che soffre particolarmente gli “alti e bassi” nella generazione), del gas e del petrolio, con gli enormi capitali di cui dispongono.

«E questo è un rischio – avverte Lazkano «è pur vero che anche aumentare l’efficienza delle centrali a fossili porta a una certa riduzione delle emissioni, ma l’effetto principale dell’uso di accumuli in queste centrali, sarà soprattutto quello di diminuire i loro costi di combustibile e manutenzione e quindi di renderle più competitive, allontanando il momento in cui la soluzione “rinnovabili più accumuli”, ne potrà prendere il posto».

Insomma, se gli accumuli usati dalle rinnovabili per diventare programmabili, rappresentano un aggravio di costi che ne allontana la competitività, per le centrali a carbone accadrà esattamente il contrario: l’aggiunta di accumuli verrà fatta per renderle più competitive e quindi più difficili da “scalzare” con fonti sostenibili.  

Se poi questo avverrà veramente dipenderà da quanto scenderanno di costo i sistemi di storage massivo e se i risparmi che comporterà il loro uso per le fossili permetteranno il recupero dei relativi investimenti. Oltre, naturalmente, a quanto scenderanno i prezzi della generazione da rinnovabili e relativi accumuli.

«Ma per andare sul sicuro – conclude Lazkano – sarà bene che si introducano misure, come le tasse sul carbonio o sussidi alle rinnovabili con storage, che evitino che l’aumento della competitività delle centrali a carbone consentito da un’ampia diffusione dello storage, finisca per allungare la vita alla generazione da carbone, allontanando quel raggiungimento degli obbiettivi di riduzione delle emissioni, necessario ad evitare un cambiamento climatico fuori controllo».

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