E se elettrificassimo le strade? Gli studi sull’energia all’auto che si muove

Ci sono diversi progetti che studiano come alimentare veicoli con l'elettricità che arriva, senza alcun contatto, da sotto il manto stradale. Si tratta della ricarica a induzione. Se ne sta occupando anche il Politecnico di Torino. Quali applicazioni e costi? Ne parliamo con l'ingegner Vincenzo Cirimele.

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Viaggiando sull’autostrada fra Reinfeld e Lübecca, in Germania, può accadere di fare strani incontri: Tir Scania con la cabina sormontata da pantografi, che prendono la corrente da una linea elettrica aerea, simile a quella dei treni o dei tram.

Si tratta di un tratto di prova di una delle tecnologie testate dal consorzio europeo di industrie, centri di ricerca e università Fabric volto a testare sistemi diversi di elettrificazione del traffico stradale, aggirando così le limitazioni delle batterie: alti costi, scarsa autonomia e lunghi tempi di ricarica.

Se il progetto tedesco-svedese del “camion-tram” può sembrare un po’ XIX secolo, gli altri due che vengono sviluppati in Fabric sono invece più futuristici: alimentare le auto con elettricità che arriva, senza alcun contatto, da sotto il manto stradale.

«Si tratta della cosiddetta ricarica ad induzione: una bobina di rame in cui circola elettricità, produce un campo elettromagnetico, che induce in una bobina simile, posta a distanza, una corrente elettrica», spiega Vincenzo Cirimele, ingegnere elettrico del Politecnico di Torino che con un gruppo di giovani ricercatori, coordinati dai professori Paolo Guglielmi e Fabio Freschi, lavora sul progetto Charge While Driving, per alimentare via induzione un veicolo elettrico in movimento. 

«L’idea della trasmissione di energia per induzione è tutt’altro che nuova, risalendo al fisico Nikola Tesla, che nel 1893 riuscì ad accendere a distanza con essa delle lampadine elettriche – ricorda Cirimele – per non dire che nel 1943 il fisico russo Georgi Babat presentò un veicolo elettrico alimentato a induzione; peccato che la parte del dispositivo montata sul veicolo pesasse 800 kg e l’efficienza di trasmissione fosse solo del 4%».

A rendere fattibile l’idea in questi ultimi anni è stato proprio il progresso nell’elettronica e il crollo di prezzi e dimensioni dei componenti. Grazie a ciò ci sono nel mondo già diversi sistemi commerciali di ricarica statica ad induzione delle batterie di veicoli elettrici, che si azionano semplicemente sostando sul punto dove è nascosta la bobina: a Genova e Torino, per esempio, il sistema è usato da anni per ricaricare alcuni bus elettrici.

«In effetti già eliminare le colonnine di ricarica, offre grandi vantaggi, per esempio minore ingombro, più sicurezza, più comodità e meno rischi di vandalismo. Ma noi vogliamo andare oltre e trasferire l’energia all’auto mentre si muove, così che possa essere usata direttamente dal motore, senza le perdite dovute a carica e scarica della batteria», dice Cirimele.

In parte neanche questo obbiettivo è nuovo. In Sud Corea da alcuni anni girano fra il centro della città di Gumi e l’aeroporto bus elettrici alimentati a induzione, creati dal Korea Advanced Institute of Science and Technology: 3 km di strada, dei 20 di percorso totale, nascondono sotto l’asfalto bobine che ricaricano una piccola batteria a bordo del bus (vedi foto).

«Ma quel bus si muove lentamente e fra la sua bobina e quella interrata ci sono solo 15 centimetri. Il nostro sistema riesce invece ad attivare le bobine al momento esatto del passaggio dell’auto, anche se questa si muove a 130 km/h. La bobina a terra, inoltre, è interrata a cinque centimetri di profondità, così che non disturbi i lavori di rifacimento del manto stradale, mentre quella dell’auto è a 20 centimetri di altezza, per rispettare la distanza minima da terra prevista dalle norme. Nonostante i 25 cm fra le due bobine abbiamo raggiunto un’efficienza di trasferimento dell’energia del 90%, contro il 74% del bus coreano».

Il tutto con un sistema di ricezione dell’energia da montare sull’auto che pesa solo una ventina di chili, e che può essere quindi aggiunto a qualunque modello di auto elettrica per renderla in grado di andare ad induzione.

In laboratorio, a una velocità massima di soli 8 km/h, il prototipo torinese ha funzionato come previsto. Per verificarlo anche a velocità “autostradali” sono stati adesso attrezzati 100 metri della pista della MotorOasi Piemonte, con 50 bobine da 25 kW nascoste sotto l’asfalto: durante l’estate si susseguiranno i test e prima dell’autunno si dovrebbero conoscere i risultati.  

Ma mentre a Torino si preparano per le prove sul campo, altri gruppi di ricerca sono già più avanti nelle sperimentazioni.

In Israele, per esempio, la startup ElectRoad ha già svolto prove su strada di un sistema analogo e conta entro il 2018 di cominciare a testarlo su linee di bus a Tel Aviv, mentre anche all’interno dello stesso Fabric è in corso un progetto analogo a quello torinese, portato avanti dall’americana Qualcomm con l’istituto di ricerca francese sul trasporto sostenibile Vedecom.

«Certo, non siamo i soli – ci dice Cirimele – ma crediamo di avere dei punti di forza sugli altri: siamo riusciti a semplificare il nostro sistema, per esempio eliminando la necessità di aggiungere ferrite alle bobine per potenziarne l’azione, e configurare la forma del campo elettromagnetico in modo che mantenga un’alta efficienza anche a distanza. Meno materiale e più efficienza, vuol dire costi minori, e i costi sono il fattore decisivo per il successo di questi sistemi».

In effetti inserire bobine nel manto stradale non è certo economico: la versione torinese costa circa 500 euro al metro, il che vuol dire un milione di euro ogni due chilometri, anche se ovviamente l’implementazione su larga scala farebbe drasticamente scendere i costi.

Ciò porta a riflettere sulla reale possibilità di successo di questa linea di ricerca.

«La sua ragione principale è superare la “range anxiety”: l’angoscia di non poter fare lunghi viaggi con il mezzo elettrico – riassume Cirimele – avendo tratti stradali che pensano loro a fornire l’elettricità al veicolo; un’auto elettrica potrebbe anche muoversi fra Milano e Reggio Calabria senza mai fermarsi per ricaricare».

Un articolo su ElectRoad apparso su Scientific American, faceva però notare come questi progetti di ricerca siano stati pensati quando le batterie al litio costavano sui 1000 $/kWh, e quindi aveva senso immaginare di ridurre le dimensioni dell’accumulatore al minimo. A un mezzo che sfrutti l’elettricità ricevuta dalla strada può bastare una piccola batteria per i sorpassi e per spostarsi fra un tratto elettrificato e il prossimo.

Ma oggi gli accumulatori stanno scendendo sotto i 200 $/kWh, e a questi prezzi è forse più economico dotare i mezzi elettrici di batterie in grado di assicurare centinaia di chilometri di autonomia, piuttosto che spendere miliardi per elettrificare le strade.

La ricarica ad induzione poterebbe quindi essere conveniente solo in forma statica, per ricaricare i mezzi durante le soste, grazie ai vantaggi innegabili che ha sulle attuali colonnine.

Oppure le autostrade elettrificate potrebbero risultare convenienti per il solo trasporto pesante, visto che è ancora difficile immaginare batterie che riescano a muovere un Tir per centinaia di chilometri senza soste. In questo caso la sfida sarebbe fra induzione e i cavi elettrici del progetto tedesco-svedese, che costano molto meno, ma sono anche più soggetti a usura e a rischio di incidenti.

«Francamente non so rispondere su quale sia lo scenario applicativo più probabile per la nostra tecnologia», conclude Cirimele.

«Noi ricercatori sappiamo solo di essere impegnati in una appassionante sfida tecnologica, nella quale abbiamo già raggiunto traguardi notevoli e che fa intravedere ulteriori, importanti miglioramenti. Non so poi alla fine a cosa servirà il nostro lavoro, forse la sua prima applicazione sarà in Inghilterra, dove uno dei nostri partner industriali ha in progetto di creare linee di bus a induzione».

Tuttavia anche se la ricarica a induzione in movimento fosse usata inizialmente per il solo trasporto pesante nulla impedirebbe al traffico leggero di sfruttare la stessa infrastruttura: una cosa più difficile da immaginare nel caso di un sistema con cavi aerei e pantografi sul tetto.

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