Mercati petroliferi, quali scenari con i nuovi tagli alla produzione?

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Tante le variabili in gioco nello scacchiere internazionale dell’oro nero: da una parte la politica difensiva perseguita dall’accordo trasversale con Arabia Saudita e Russia in testa, dall’altra la ripresa dell'estrazione dai giacimenti non convenzionali negli Stati Uniti. Vediamo come potrebbero evolvere i prezzi.

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La decisione presa ieri dai grandi paesi petroliferi mondiali era nell’aria: estendere i tagli alla produzione di nove mesi.

La IEA (International Energy Agency), una decina di giorni fa, costatava che il mercato globale dell’oro nero si stava riequilibrando e che la tendenza sarebbe proseguita, grazie al minore output dei produttori e al rialzo atteso della domanda.

La politica salva-prezzo del barile da diversi mesi ha messo d’accordo i paesi OPEC e non-OPEC, guidati da Arabia Saudita e Russia.

Il primo patto era stato siglato alla fine dello scorso anno ed era entrato in vigore nel gennaio del 2017; le nazioni del cartello e altre 11 “libere” (ma non Libia e Nigeria) si sono ritrovate ieri a Vienna, sottoscrivendo una proroga dell’accordo fino a marzo 2018.

Inalterato l’obiettivo di tale strategia: rimuovere dal mercato 1,8 milioni di barili giornalieri per riassorbire progressivamente lo stock invenduto di greggio a livello internazionale. I produttori vorrebbero mantenere le quotazioni del barile almeno intorno a 50 $, per evitare che i prezzi troppo bassi mettano a rischio i ricavi delle loro esportazioni.

Facciamo un passo indietro al periodo 2015-2016 (vedi anche QualEnergia.it) per comprendere meglio cosa potrebbe accadere nei prossimi mesi e con quali conseguenze. Allora i valori del barile erano scesi bruscamente, per poi risalire nella “comfort zone” di 50-55 $ grazie alle stime sull’incremento dei consumi e all’impegno concordato dai principali esportatori per contenere l’output di greggio.

Le previsioni per il 2017 erano all’insegna della volatilità, anche perché la produzione mondiale effettiva di oro nero dipenderà molto dalle scelte che faranno gli Stati Uniti.

Come sappiamo, il boom delle risorse non convenzionali – così definite perché il petrolio negli scisti, per essere estratto, richiede tecnologie più invasive rispetto a quelle impiegate nei pozzi comuni, cioè il fracking o fratturazione idraulica delle rocce – si era sgonfiato proprio perché i prezzi del barile erano crollati.

Lo shale oil, infatti, non è conveniente se le quotazioni dell’oro nero scendono oltre una certa soglia: per quanto siano diminuiti i costi del fracking, sono sempre più alti delle trivellazioni convenzionali, quindi l’industria petrolifera statunitense tende a ristagnare se i segnali di mercato sono piatti o negativi.

Una risalita del Brent, quindi, contribuisce a rendere nuovamente competitivi i giacimenti americani, che possono tornare a produrre con buoni margini di profitto. A sua volta, la crescente disponibilità di petrolio statunitense può favorire il riequilibrio complessivo del mercato, facendo aumentare l’offerta con un probabile effetto-calmiere sui prezzi.

Come si vede, le variabili del “gioco” petrolifero sono tante.

Tornando all’accordo, sponsorizzato in primis da Russia e Arabia Saudita, la reazione immediata degli indici Brent e WTI (ieri entrambi hanno perso alcuni punti percentuali) è stata all’insegna dell’insoddisfazione.

Il ministro saudita dell’energia e presidente di turno dell’OPEC, Khalid al-Falih, ha rassicurato gli animi annunciando che a novembre ci sarà una nuova riunione dei produttori, in cui si potrà valutare un’altra estensione dei tagli.

Il patto bis di Vienna, secondo gli analisti di IHS Markit, evidenzia la “tenuta” dell’intesa raggiunta nel 2016 tra il cartello mediorientale e diversi paesi non-OPEC e rafforza l’alleanza russo-saudita, con il comune intento di difendere i prezzi, riportare domanda e offerta in equilibrio e smaltire le scorte invendute, che si erano accumulate a livelli mai visti prima.

Mosca e Riyad sono due dei più grandi produttori mondiali di petrolio (nel terzetto figurano poi gli Stati Uniti) e la loro “linea nella sabbia”, come scrive IHS, è assestare il tetto globale delle scorte alla media dei cinque anni precedenti, con prezzi tali da salvaguardare la resa economica dei pozzi.

Per ora, prosegue IHS, non esiste una “exit strategy” per il post marzo 2018, ma Arabia Saudita e Russia hanno chiarito che l’intesa è flessibile: in altre parole, i vari paesi coinvolti valuteranno se e come aggiustare i tagli secondo l’evoluzione del mercato e dei relativi prezzi.

Qui torniamo agli Stati Uniti e allo shale oil: gli esperti della società di consulenza prevedono che la produzione di petrolio non convenzionale (includendo i giacimenti canadesi) aumenterà di circa 1,6 milioni di barili giornalieri fino al 2018.

Gli USA, da soli, dovrebbero incrementare l’output di circa 900.000 barili quotidiani nel corso del 2017, rimettendosi così in pista nella competizione petrolifera internazionale.

Tale incremento annullerà, almeno in parte, la strategia difensiva del cartello? Come reagiranno i mercati nel medio termine? Domande alle quali, al momento, è impossibile fornire una risposta univoca.

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