Le associazioni ambientaliste sulla SEN: poca decarbonizzazione del sistema

Le associazioni ambientaliste WWF, Grenpeace e Legambiente, apprezzano, con alcune puntualizzazioni, gli scenari di uscita dal carbone, ma sono critiche sul fatto che il piano al 2030 possa stimolare investimenti importanti nel settore edilizio, nei trasporti e nelle rinnovabili.

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Tutte le associazioni ambientaliste apprezzano lo scenario di uscita dal carbone in Italia indicato dalla Strategia Energetica Nazionale, presentata ieri dai ministri competenti (vedi slide di presentazione), anche se con alcune osservazioni critiche su questo punto. Ma, a parte una positiva visione più sistematica del settore energetico, gli apprezzamenti sulla SEN finiscono qui.

Per Greenpeace c’è comunque una notevole differenza tra chiudere l’ultima centrale a carbone nel 2025 oppure nel 2030, ricordando ad esempio che l’Agenzia Europea per l’Ambiente, solo pochi anni fa, stimava in oltre 500 milioni di euro l’anno gli impatti della sola centrale di Brindisi.

Ricordiamo che nella SEN si ipotizzano tre scenari. Quello “inerziale“, che prevede la dismissione di 2 GW e il mantenimento di 4 impianti (Torrevaldaliga Nord, Brindisi Sud, Fiumesanto e Sulcis); uno “intermedio” che prevede anche la chiusura di Brindisi, e quello che prevede l’uscita totale dal carbone che costerebbe però circa 3 miliardi di euro in più rispetto allo scenario base, secondo quanto detto dal ministro Calenda.

Secondo la SEN questo scenario “estremo” richiederebbe investimenti tra 8,8 e 9 miliardi di euro sulla rete, così composti: +1,1/1,4 mld col phase-out totale, compreso nuovo elettrodotto con la Sardegna), 7,5-9,5 mld di € tra risorse di flessibilità e pompaggi ad asta e 0,5-0,6 mld di € di nuovi impianti a gas per circa 1 GW (+0,7/0,8 mld di € per 1,4 GW, a cui vanno aggiunti 0,5 mld di € per infrastrutture di approvvigionamento gas in Sardegna.

Per il WWF Italia, che ha presentato in passato degli scenari di uscita dal carbone in Italia non oltre il 2025, ci sono delle perplessità anche sulle compensazioni per le centrali da chiudere i cui costi non sono saranno ancora ammortizzati. Per Mariagrazia Midulla, responsabile Clima ed Energia, “occorre mettere molti paletti; ma se così dovesse essere queste spese devono essere ancorate a nuovi investimenti nelle rinnovabili e nell’economia decarbonizzata, oltre che alla salvaguardia dei lavoratori coinvolti dalla transizione”.

Greenpeace si chiede inoltre se la stima del ministro del costo dell’uscita dal carbone, 3 miliardi di euro in più sullo scenario di base, includa anche i risparmi della mancata importazione del combustibile, i benefici sanitari, climatici ed economici che verrebbero dall’azzeramento delle emissioni. I conti del ministro Calenda non sembrano ancora chiarissimi su questo punto.

Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace, nel comunicato dell’associazione, riferendosi alla questione degli stranded cost, cioè i costi da compensare ai proprietari delle centrali in caso di uscita al 2025, fa presente che è difficile pensare che questi impianti saranno tutti ancora non ammortizzati e che potranno quindi essere un costo così ingente per il Paese, visto che il parco di produzione termoelettrica a carbone è in gran parte costituito da impianti vecchi, i cui costi di realizzazione sono stati ripagati da anni.

Per il WWF inoltre la sostituzione di centrali convenzionali con nuova potenza da fonte fossile (con il gas) per garantire la stabilità del sistema, dovrebbe invece essere orientata più negli investimenti in sistemi di accumulo.

Le associazioni ambientaliste concordano sul fatto che gli obiettivi per le rinnovabili non siano affatto ambiziosi (recepiscono solo i target europei) e in sintonia con la lotta ai mutamenti climatici in atto e che, inoltre, i risultati finora ottenuti in questo ambito in vista degli obiettivi 2020 sono frutto anche di una correzione statistica.

Per Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente, l’Italia deve e può fare di più al 2030. “Se non alziamo almeno al 35% gli obiettivi sulle rinnovabili – ha detto – non riusciremo mai a dare il contributo a livello europeo previsto per stare dentro gli obiettivi dell’Accordo di Parigi”.

Greenpeace pone l’accento sulla promozione dell’autoconsumo da rinnovabili che è stata citata dal Ministro Calenda, senza però ricordare – dice l’associazione – che oggi in Italia ogni forma di autoconsumo e scambio peer to peer di elettricità, soluzione che si sta sperimentando in diversi paesi, è ancora fortemente scoraggiata dalla burocrazia o impedita dalle norme.

Per Legambiente le proposte indicate dalla SEN per le rinnovabili e l’efficienza non riusciranno a smuovere gli investimenti, in particolare nel settore edilizio, nei trasporti e nelle fonti rinnovabili, anche per la vaghezza dei contenuti e il ruolo limitato previsto per l’autoproduzione e la generazione distribuita.

Sul fronte trasporti, Greenpeace vorrebbe che si puntasse fortemente al rinnovamento del parco veicoli andando verso la mobilità elettrica, con più investimenti nella realizzazione di una infrastruttura diffusa di ricarica e con incentivi per l’acquisto di veicoli elettrici. “Neppure un centesimo per passare a nuove categorie, tipo Euro 6, specie se diesel”, affermano da Greenpeace.

Il riferimento fatto da Calenda ad una penetrazione dell’elettrico oltre il 10% al 2030 sembra per Greenpeace più che altro un tappo ad un mercato potenzialmente in grande crescita nei paesi industrializzati.

“Sulla mobilità non ci sono ancora chiari segnali verso la soluzione elettrica, che pure è ormai chiaramente la prospettiva in tutto il mondo: l’incapacità di scegliere oggi, insistendo ancora con la mobilità a gas per il trasporto delle persone, rischia di farci rimanere fuori dallo sviluppo industriale futuro”, ha detto Midulla, nel comunicato del WWF.

Tornando alle fonti fossili, Zanchini fa notare che non c’è stato nessun cenno alle trivellazioni, “sul cui futuro nella produzione energetica nazionale, Calenda e Galletti hanno glissato, e neppure ai sussidi per le fonti fossili, sui quali gli ambientalisti promettono battaglia ai tavoli di discussione”.

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