Rigassificatori, il “no” del Friuli a Zaule e la partita italiana del gas

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La Regione vuole formalizzare la sua opposizione al progetto di un terminale GNL da 8 miliardi di metri cubi l’anno nel porto di Trieste. Il ministro Calenda prende atto e annuncia che il governo valuterà la situazione, considerando anche gli altri progetti autorizzati-esaminati dal MiSE.

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Il “no” del Friuli-Venezia Giulia al rigassificatore di Zaule, ci riporta alla domanda se all’Italia convenga investire su nuove infrastrutture del gas.

Andiamo con ordine: Debora Serracchiani, presidente della Regione, ha appena dichiarato che il Friuli “formalizzerà la propria contrarietà al progetto tramite l’espressione di un’intesa negativa nella Conferenza dei Servizi al ministero dello Sviluppo economico”.

Tra Serracchiani e Carlo Calenda, ministro dello Sviluppo economico, c’è stato uno scambio di lettere, con la prima che chiedeva al secondo di precisare la posizione del governo sulla costruzione di un terminale per la rigassificazione di GNL (gas naturale liquefatto) in località Zaule a Trieste.

La Regione aveva già detto che non avrebbe autorizzato il progetto nel 2015, quando aveva approvato il Piano energetico regionale (PER), perché riteneva inutile e sovradimensionato l’impianto onshore proposto dalla multinazionale spagnola Gas Natural Fenosa, che dovrebbe avere una capacità pari a 8 miliardi di metri cubi l’anno.

Calenda, si legge nella nota regionale, ha risposto che “verranno effettuate le conseguenti valutazioni di interesse complessivo così come previsto dalla normativa, ai fini della conclusione del procedimento”, precisando poi che il governo terrà anche conto “della presenza in Italia di altri progetti di impianti di rigassificazione autorizzati, di cui non è stata ancora avviata la costruzione, e degli ulteriori progetti similari in corso di esame presso questo ministero”.

Torniamo così all’ipotesi, ampiamente dibattuta in questi anni, di trasformare lo Stivale in un “hub” del gas, un punto nodale per gli approvvigionamenti di combustibile da indirizzare verso gli altri paesi europei.

Per il momento, sono tre i rigassificatori attivi in Italia: a Panigaglia, Porto Tolle e Livorno. Quest’ultimo era stato dichiarato “infrastruttura strategica” dal governo, potendo così ottenere il diritto a un fattore di garanzia. In altre parole: soldi assicurati anche in caso di mancata vendita del combustibile, ovviamente scaricati sulle bollette dei consumatori (vedi anche QualEnergia.it).

Questa prassi la dice lunga sulla reale sostenibilità economica di simili investimenti.

Difatti, un paio di progetti – Porto Empedocle e Priolo Gargallo – sono stati abbandonati dai rispettivi proponenti, mentre quelli al vaglio del MiSE, citati da Calenda nella sua risposta a Debora Serracchiani sul futuro di Zaule, sono impianti di cui a vario titolo si discute da molto tempo (Monfalcone e Gioia Tauro, ad esempio).

Molto dipenderà dagli orientamenti della nuova Strategia energetica nazionale, che il governo dovrebbe presentare in primavera. Quali e quanti terminali vorrà effettivamente includere nel suo piano? In ballo c’è anche la realizzazione di nuovi gasdotti, TAP (Trans Adriatic Pipeline) su tutti.

TAP dovrebbe inaugurare quel corridoio Sud del gas promosso da Bruxelles e dallo Stato italiano, con l’obiettivo di variare le rotte d’importazione del metano, riducendo la dipendenza dalla Russia.

I tubi porteranno 10 miliardi di metri cubi di metano l’anno dai giacimenti azeri del Mar Caspio verso l’Europa, con un progetto molto contestato dalle comunità locali pugliesi; l’approdo della tratta finale offshore è previsto in località San Foca.

Eppure, come avevamo osservato in questo articolo, non è detto che investire in infrastrutture di questo tipo sia un’idea vincente. L’Italia ha davvero bisogno di tanto gas in più? Nei primi nove mesi del 2016, la domanda di metano è aumentata leggermente (+1,3%) rispetto all’analogo periodo dell’anno precedente.

Il 2015, a sua volta, si era chiuso con quasi 67 miliardi di metri cubi richiesti, +9% in confronto al 2014 ma molto lontano dal picco registrato dieci anni prima.

Concorrenza delle fonti rinnovabili, debole ripresa dei consumi industriali, misure di efficienza energetica, sono tutti elementi che farebbero propendere per una strategia più orientata alle tecnologie pulite, piuttosto che a potenziare la rete di gasdotti e terminali GNL, con il rischio di ritrovarsi con infrastrutture “fuori scala” rispetto ai bisogni energetici futuri.

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