Quale pensiero economico sulla crisi ambientale?

Con la forte crisi climatica planetaria, la crisi ambientale legata alla spoliazione delle risorse naturali, oggi siamo anche di fronte, e da tempo, a una grave crisi economica. Cosa dicono di questa doppia crisi gli economisti, le loro teorie, i loro modelli? Vanno lasciate a loro le decisioni economiche politiche?

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L’articolo nella versione digitale della rivista QualEnergia

«Non possiamo permetterci di affidarci ad un’economia astratta e isolata dalla biofisica planetaria da cui dipendiamo: il clima è la condizione della nostra sopravvivenza, problema troppo grande per essere lasciato nelle mani dei soli economisti».

Così, Luca Mercalli concludeva un suo articolo (La Stampa, 5 ottobre 2016) dopo aver rilevato gli ostacoli che ha davanti a sé la realizzazione dell’accordo di Parigi, oltre a quello antropologico: «siamo una specie che non riesce a guardare oltre il proprio naso, c’è il paradigma economico della crescita infinita che è in evidente rotta di collisione con un mondo finito».

En passant, la soppressione di “Scala Mercalli” insieme a quella di “Ambiente Italia” dal palinsesto delle reti Rai ha mostrato in un sol colpo una tendenza dell’informazione che chiamarla “economicista” è farle un complimento e, ancor peggio, che i populismi imperanti ­ pensiamo alla situazione italiana ­ hanno incredibilmente compresso in questi vent’anni lo spazio pubblico dei “corpi intermedi”, la cui voce è sempre più inascoltata, come lo sono state le motivate proteste contro quella soppressione avanzate da associazioni alle quali in passato era riservata una qualche attenzione.

Mentre incalza drammaticamente l’instabilità climatica ed è planetaria la crisi dell’ambientale legata alla spoliazione delle risorse naturali, oggi siamo anche di fronte, e da tempo, a una grave crisi economica. È naturale allora interrogarsi su cosa dicano di questa doppia crisi gli economisti, le loro teorie, i loro modelli, che stanno alla base di tante importanti e spesso nefaste decisioni politiche.

Sulla crisi ambientale e le sue devastanti conseguenze anche economiche, queste ultime ben illustrate dal rapporto che Nicholas Stern presentò a Blair proprio dieci anni fa, il loro cervello è come quello di “Vostra Eccellenza” del Giusti: morto e sotterrato. Eppure la ‘scuola’ economica dominante, i neoliberisti, gravissime responsabilità ne hanno in questo perdurante sfacelo!

Quando movimenti e studiosi si sono appellati in tutti questi anni e in tutto il mondo contro l’insostenibilità del “pensiero unico”, contro la nocività non solo ambientale, ma anche sociale ed economica del neoliberismo, erano proprio individuati, con maggiore o minor precisione, i “falchi” della “scuola di Chicago”, e la folla di loro seguaci o del Fondo Monetario Internazionale.

Però va detto che, anche le “colombe” come i Nobel Paul Robin Krugman o Joseph Stiglitz, pur riproponendo politiche economiche che non fossero strangolate dal vincolo di bilancio, si fermavano esitanti di fronte ai rischi di medio termine derivanti dall’esposizione del debito sovrano alla speculazione della finanza mondiale, che nessuno ha messo sotto controllo neanche dopo l’esplodere della bolla finanziaria del 2008.

All’estremo opposto dei neoliberisti, esagitati sacerdoti dell’austerity sulle spalle di ceti e di masse sempre più impoverite, sono insorti i “gufi”, con alla testa Galbraith junior, accusando: «le `colombe’ paventano che la crescita del disavanzo statale per finanziare la spesa pubblica comporti rischi di medio-lungo termine, ma questa è un’ipotesi basata su programmi al computer di scarsa affidabilità e, soprattutto, rende impotenti di fronte ai provvedimenti da prendere subito, che inevitabilmente si traducono in tagli allo stato sociale e all’assistenza sanitaria come vogliono i `falchi’».

La risposta dei “gufi” è lapidaria: «il deficit non è un problema, ma una conseguenza naturale della crescita; e uno stato che può stampare carta moneta sovrana non può fallire, come già proponeva negli anni Venti il `Cartalismo‘. Anzi, il disavanzo statale a sostegno della spesa pubblica può essere una positiva cornucopia, a patto che a finanziarlo siano le banche centrali ­ Fed, Bce ­ comprando senza limiti i titoli di Stato emessi dai governi».

Insomma, nel pensiero economico, pur nei forti contrasti di approccio, non appare alcuna preoccupazione per l’altra crisi, alcun riferimento alla “biofisica planetaria” o a quella termodinamica che regola i processi naturali e i cicli climatici e che, negli anni ‘70, Nicholas Georgescu-Roegen aveva tentato di porre alla base di un nuovo punto di vista economico, lo “stato stazionario”, contro il paradigma della crescita indefinita.

E anche i “meteorologisti” ­ una branca italiana di Inet (International New Economic Thinking), onlus lanciata da George Soros nel 2009, per superare l’inadeguatezza delle teorie economiche correnti che raccoglie centinaia di economisti di tutto il mondo inclusi molti premi Nobel ­ i quali hanno recentemente proposto nuovi e interessanti modelli economici basati su previsioni analoghe a quelle per il tempo, sembrano affetti da ipoacusia rispetto al rombante galoppo di carica dei cambiamenti climatici.

E la green economy, che pure è risuonata in conferenze internazionali di politica economica anche per autorevoli voci? Se non un “tema buono per le omelie domenicali”, al più un filone aggiuntivo da valutare per il ritorno degli investimenti, e non certo il fulcro di quella riconversione ecologica dell’economia e della società che i movimenti ambientalisti di tutto il mondo richiedono da qualche decennio e che, seppure con altra connotazione, è ben presente anche nella Laudato si’.

E così resta senza risposta anche la crisi economica, tipica del modo di produrre e consumare capitalistico, segnata dalla contraddizione tra l’inadeguatezza della domanda rispetto al crescere dell’offerta.

Già visto, si dirà. No, il dato del tutto nuovo, lo ripetiamo, è il carattere quantitativo di questa crisi di sovrapproduzione, conferitole dal procedere esponenziale dell’innovazione tecnologica nel mercato globale, che richiederebbe un’ugualmente globale e impossibile, redistribuzione del reddito per far incrociare domanda con offerta.

Né si può far ricorso, come nelle due grandi crisi del secolo scorso, alla guerra mondiale come fattore di superamento della contraddizione. Non è esaltante, ma è la deterrenza nucleare a scoraggiare questa “soluzione”.

Viene allora naturale chiedere radicali cambiamenti non solo alle politiche economiche, come stiamo facendo da decenni indicando al contempo su quale strada pro-cedere ­ proprio nella rubrica scorsa ricordavamo l'”economia circolare“­, ma anche al pensiero economico, ai suoi modelli e alle sue teorie per fornire risposte adeguate alla doppia crisi che stiamo vivendo: quella dell’ambiente e quella economica, tout court del capitalismo.

Sul piano della teoria economica forse si potrà affrontare più efficacemente lo schaubleismo, ancora dominante nelle scelte fondamentali europee, se in essa si lascerà filtrare un po’ di “biofisca planetaria”, se si comincerà a pensare a modelli costruiti accoppiando variabili economiche e variabili ecologiche, e non solo modelli a colpi di Pil o di fitness; se un nuovo pensiero economico indagherà e produrrà risposte scientificamente credibili per il raggiungimento di uno “stato stazionario”, quell’ipotesi socio-economica sostenibile che non ha mai avuto udienza, pur tra i loro profondi contrasti, nella voliera di “falchi”, “colombe” e “gufi”.

L’articolo è stato originariamente pubblicato sul n.5/2016 della rivista bimestrale QualEnergia.

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