Le nuove strategie Opec e gli effetti sull’offerta e il prezzo del barile

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Dopo un lungo periodo di ampia offerta di petrolio e prezzi ai minimi, l'Opec ha deciso una riduzione delle quote di produzione nei diversi paesi esportatori. Sui possibili effetti di tale accordo, QualEnergia.it ha intervistato Massimo Nicolazzi, professore di economia delle risorse energetiche.

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Abbondanza di petrolio e prezzi ai minimi hanno caratterizzato la recente condotta dell’Organizzazione dei Paesi Esportatori.

A Vienna, con l’accordo del 30 novembre, si tenta un’inversione di rotta. Intervistiamo sul tema Massimo Nicolazzi, professore di economia delle risorse energetiche all’Università degli Studi di Torino, chiarendo il reale significato di questa storica intesa.

Tenendo conto delle tensioni che fino a poche settimane fa laceravano il Cartello, è rimasto sorpreso dalla prova di coesione dimostrata a Vienna?

Quanto annunciato a Vienna ha stupito molti. Il messaggio è chiaro: se vogliamo possiamo metterci d’accordo. Solo qualche settimana prima non pareva possibile anzitutto a causa dei conflitti d’interesse tra i membri OPEC. Le dispute interne al Cartello dipendono anche da ragioni demografiche e, in ultima analisi, dalla rendita petrolifera procapite. Chi accumula rendita in forma di riserve può permettersi di difendere il prezzo. Mentre chi la impiega tutta e subito in spesa sociali non può che difendere le proprie quote di mercato e, dunque, i volumi. In seno all’OPEC questa volta ha prevalso l’idea che l’articolazione delle quote per ridurre la produzione debba contemplare l’esenzione dei paesi in maggiore difficoltà. Questa è la ragione per la quale paesi popolosi e con alta densità di popolazione, la Nigeria fra tutti, sono stati esentati da compiere qualsivoglia misura di limitazione della produzione.

Sembra che Teheran e Ryad siano riusciti a superare la loro storica rivalità, ma è l’Arabia Saudita ad aver pagato il prezzo più alto. Significa forse che il suo ruolo all’interno dell’OPEC si è ridimensionato?

Non vedo né vinti né vincitori. Da parte di entrambi c’era la consapevolezza che la priorità era dare al mercato il segnale di poter far cartello, a prescindere dal volume del taglio. Si è giunti a un compromesso di buon senso all’interno del quale è sulle spalle dei sauditi, ritornati almeno in parte al ruolo di swing producer, che ricade il maggior sforzo di taglio alla produzione. Ricordiamoci un precedente storico. A partire dal 1973 e fino ai primi anni ‘80, la convinzione diffusa in seno al cartello era che la domanda di petrolio si dimostrasse perfettamente anelastica al prezzo. Il prezzo veniva fissato unilateralmente, passando in un decennio da poco più di 2 a quasi 40 dollari per barile. E non ci si preoccupava del fatto che l’aumento del prezzo stimolava i Paesi consumatori al varo di strategie di efficienza energetica e rendeva economica la ricerca di riserve alternative, quali quelle sviluppate nel Mare del Nord. In un mercato che, anche grazie la quotazione del petrolio al nymex, si stava facendo sempre più liquido, la capacità di controllo dell’OPEC venne sempre più a ridursi. Nel 1983 decisero di difendere il prezzo del barile, anziché le quote di mercato, imponendo a tutti i membri quote prefissate di produzione.

Cosa accadde poi?

Finì che l’Arabia Saudita si fece onere della quasi totalità del taglio, mentre la maggior parte degli altri membri non rispettò le quote assegnate. Il tentativo di difesa dei prezzi del 2016 potrebbe avere un esito più felice di quello del 1983. Oggi, considerando che tutti i membri partono da picchi di produzione, dovrebbe essere possibile togliere dal mercato 1,2 milioni di barili giorno senza particolari contraccolpi. Il problema è che, come molti credono, questa riduzione potrebbe rivelarsi insufficiente a riequilibrare domanda e offerta. Solo i prossimi mesi ci diranno se in questa ipotesi saranno in grado di concordare ulteriori tagli alla produzione. Se poi non gli riuscisse comunque di riequilibrare domanda e offerta, finirebbe la storia, o forse già la leggenda, della capacità dell’OPEC di reindirizzare il mercato.

È pur vero che la buona riuscita dell’accordo dipende anche da quanto dichiarato dal ministro dell’energia russo. Cosa ha da guadagnare Mosca se si fa carico di una riduzione di 300.000 barili al giorno?

È tutto molto relativo. Già da tempo alcune analisi, in parte anche russe, prevedevano che in assenza di nuovi investimenti si sarebbe verificata una lenta riduzione della produzione nazionale. Quello che viene definito taglio potrebbe perciò sovrapporsi almeno in parte al fisiologico declino produttivo dei giacimenti russi, la maggior parte dei quali ha raggiunto uno stadio dello sfruttamento molto avanzato. Al di là dell’ammontare effettivo della riduzione, va colto il valore politico del gesto di disponibilità al dialogo manifestato dalla Russia. Si pensi a Ryad e Mosca, così distanti sulle tematiche siriane e – per ora – così apparentemente in sintonia nel delineare una comune strategia di limitazione della produzione. Sono i miracoli della rendita petrolifera.

Lo shale oil statunitense ha superato indenne per due anni i sussulti del mercato: sarà proprio l’olio non convenzionale il primo beneficiario del taglio?

Indubbiamente lo shale oil ha resistito alla guerra dei prezzi meglio di quanto chiunque si aspettasse. Oggi, grazie al miglioramento delle tecniche estrattive, può godere di un breakeven point molto più basso rispetto all’inizio del 2014. Ciononostante il prezzo corrente ha causato una riduzione della produzione di circa un milione di barili/giorno rispetto ai massimi del 2015. Nella shale industry tra la decisione d’investimento e l’operatività dei campi trascorrono pochi mesi, e il picco produttivo si raggiunge dunque in un lasso di tempo nettamente più breve rispetto a quanto avviene nel settore convenzionale. Il volume della produzione da shale è dunque price sensitive nel breve periodo, laddove quello della produzione convenzionale non lo è , o almeno non significativamente. La produzione shale potrebbe perciò rivelarsi un ammortizzatore dei picchi del mercato. Già a 50 $ al barile, rispetto a un minimo sceso sotto i 30, la produzione statunitense ha mostrato di poter riprendere al rialzo.

Quindi cosa ne sarà del petrolio non convenzionale statunitense?

Si gioverà del taglio e potrebbe, aumentando la produzione, essere di ostacolo a una ripida risalita del prezzo. Ulteriore ammortizzatore potrebbero rivelarsi le scorte commerciali che si sono stoccate nel corso degli ultimi due anni e che, se riversate massicciamente sul mercato, avrebbero un effetto depressivo sull’andamento del prezzo. Tutti barili che si riverserebbero sul mercato con chiari effetti sulla stabilità del prezzo. In ogni modo, stiamo solo analizzando il lato dell’offerta.

Appunto, e la domanda?

L’evoluzione della domanda meriterebbe un capitolo a sé. Oggi, e forse irreversibilmente, la domanda dell’Occidente appare in declino. L’aumento dei consumi petroliferi è interamente determinato dall’andamento dei consumi asiatici. Da questo punto di vista, il tasso di crescita dei consumi cinesi sarà una delle determinanti principali del futuro andamento dei prezzi.

È ancora attuale la leva geopolitica del petrolio?

Sono persuaso che ci sia molta mitologia. In modo provocatorio direi che non abbiamo ancora superato lo shock del ’73. Quando parliamo di sicurezza energetica dobbiamo capire che produzione e domanda dipendono l’una dall’altra, e ciò significa che il benessere di un Paese esportatore netto deriva dalla disponibilità di vendere sul mercato i propri barili. La storia è testimone dell’inefficacia dei boicottaggi. Misure di questo tipo, in una situazione di eccesso di offerta, non sortirebbero altro effetto se non quello di favorire i produttori concorrenti. Anche se spesso si parla di guerre per accaparrarsi l’ultima goccia di petrolio, nell’era dell’abbondanza ciò non ha un fondamento economicamente razionale.

 

Massimo Nicolazzi, professore a contratto di economia delle risorse energetiche all’Università degli Studi di Torino, è Presidente di Centrex Italia SpA e responsabile dell’Osservatorio Energia dell’ISPI. Nel corso della sua plurideccenale carriera nel settore degli idrocarburi ha ricoperto importanti incarichi dirigenziali in Eni/Agip e in Lukoil. Consigliere scientifico della rivista “Limes”, è autore di numerose pubblicazioni tra cui il libro “Il prezzo del petrolio”, edito da Boroli Editori.

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