La causa delle guerre contemporanee è l’accaparramento del petrolio

CATEGORIE:

Il petrolio è tra le principali cause che scatenano gli attuali conflitti armati tra Stati, dentro gli Stati e tra gruppi etnici. Le strategie che stanno alimentando le guerre in Medio Oriente e in Africa centro-settentrionale. La rivoluzione energetica è l'antidoto alla guerra.

ADV
image_pdfimage_print

L’articolo nella versione digitale della rivista QualEnergia

Il 9 ottobre c’è stata la marcia della Pace, da Perugia ad Assisi. A 55 anni di distanza dalla prima, voluta da Aldo Capitini per testimoniare a favore della pace, della solidarietà tra i popoli e della non violenza, si torna a marciare, non per uno stanco rituale o per riaffermare valori inossidabili, ma perché ci sono oggi questioni pressanti, che tolgono il respiro e quasi la speranza.

Questioni che attraversano il nostro pianeta e penetrano nella vita quotidiana di milioni di persone con una violenza inaudita e incomprensibile. E che soprattutto fanno dire a tante, troppe persone che le armi, la distruzione del nemico e la guerra sono l’unica soluzione, l’unica via di uscita.

Oggi la guerra c’è, ci siamo dentro. Nel 2015 ci sono stati 223 conflitti violenti – secondo l’Heidelberg Institute for International Conflicts Research, che dal 1991 stila ogni anno il “Conflict Barometer”, di cui 43 ad alta intensità, soprattutto concentrati tra Medio Oriente e Africa centro-settentrionale, con la più alta concentrazione di gruppi armati in Siria, Iraq e Israele.

Ma perché ci sono tante guerre oggi? Perché ci troviamo, come ripete spesso e a ragion veduta, Papa Francesco, nel mezzo di una Terza Guerra Mondiale a pezzi, non dichiarata?

Ci troviamo a uno di quei gomiti della storia, in cui tutto cambia, e a grande velocità. In cui la politica, ma anche i movimenti civili e le persone di buona volontà, dovrebbero ripensare alle scelte personali e collettive, rivedere le letture tradizionali, misurarsi con il cambiamento impellente e provare a costruire percorsi nuovi.

Un punto di svolta che interroga anche il movimento pacifista perché rispetto al secolo breve è cambiata la scena, gli attori, gli strumenti, le motivazioni, gli obiettivi. Le categorie tradizionali non ci spiegano questa escalation.

L’Heidelberg Institute per esempio parla di guerre causate dalla conquista del potere, a livello nazionale o internazionale, dal controllo di territorio, da tentativi di secessione o conquista di autonomia e indipendenza, dall’ideologia o dall’accesso alle risorse.

Mi sembra una lettura un po’ troppo “novecentesca”. Se si scava negli interessi economici, nei finanziamenti, nelle strategie egemoniche regionali, si scopre che quasi sempre c’è la lotta per l’accaparramento del petrolio a scatenare conflitti e attacchi terroristici. I signori del petrolio sono anche i signori della guerra.

Petrolio e clima in guerra

Se il controllo del greggio è quasi sempre la causa profonda dei conflitti, soprattutto nell’area Mena e dell’Africa centro-occidentale, non va sottovalutato il ruolo dei cambiamenti climatici che rappresentano ormai in molte aree la causa scatenante, perché stanno creando condizioni generalizzate di inabitabilità in molti territori.

Siccità, prosciugamento delle risorse idriche, desertificazione, riduzione dell’accesso alle terre fertili, anche per il fenomeno del land grabbing, devastazioni meteorologiche provocano povertà, crisi alimentari, esodi e migrazioni di milioni di persone a corto e lungo raggio, in cui si creano tensioni del tutto nuove e su cui si innesta il delinquenziale commercio di armi, che sta creando le condizioni perché ogni conflitto diventi subito un conflitto armato.

La prima risposta per ridurre, se non azzerare, i rischi di guerra è contrastare i cambiamenti climatici con azioni rapide e efficaci. Non a caso abbiamo sostenuto che le manifestazioni del 29 novembre, a Roma e nel mondo, all’apertura della Cop 21, sono state la prima uscita di un nuovo movimento pacifista.

In questo “disordine” crescente s’inserisce l’attualissima crisi del petrolio, dovuta al fatto che è stato superato il picco: è finita l’era del petrolio di facile accesso e a buon mercato, dai bassi costi di produzione.

È dal 2005 che «la crescita di offerta è garantita dallo sfruttamento di categorie di petrolio provenienti da giacimenti non convenzionali, più costose sia in termini economici sia in termini energetici», come afferma Luca Pardi ­presidente Aspo Italia.

Il petrolio non sta finendo, costa di più produrlo. Ciò scatena la competizione per mantenere le quote di mercato esistenti e il conflitto per il controllo di nuovi giacimenti.

L’impennata del prezzo nel 2008, anche se bruciata dalla bolla finanziaria di fine anno, dà il via libera a grandi investimenti, che passano dal 2000 al 2014, da circa 100 mld $ (valore 2014) a più di 700 mld $, soprattutto nel settore dello shale gas e dello shale oil, grazie ai quali gli USA quasi raddoppiano la propria produzione in due anni e diventano il primo produttore al mondo.

Con due conseguenze:

  1. gli USA si disinteressano del Medio Oriente, favorendo l’emersione esplosiva delle aspirazioni egemoniche delle potenze regionali, che mettono in crisi le alleanze tradizionali
  2. crolla il prezzo del petrolio, che nell’estate 2014 cala del 60% attestandosi intorno ai 45/50 $.

È la contromossa dell’Opec, guidato dall’Arabia Saudita, che impone prezzi bassi per mettere in difficoltà la produzione USA, suo antico alleato, e impedire il rientro dell’Iran, suo grande competitore regionale (ndr, qualcosa cambia il 30 novembre: Petrolio, taglio Opec alla produzione: il primo dal 2008). Mentre l’Europa continua a vivere sotto il ricatto delle riserve russe o mediorientali e non riesce a cambiar passo nella sua politica.

Il crollo del prezzo blocca gli investimenti e crea instabilità, l’evoluzione del mercato energetico vanifica le aspettative sul rialzo dei prezzi, ma il petrolio continua ad avere un peso determinante nello sviluppo economico ed è alla base di grandi ricchezze. Chi controlla il petrolio ha ancora un grande potere.

È questo il mix esplosivo in cui viviamo immersi, aggravato dalle tensioni sociali provocate dall’aumento delle disuguaglianze e dagli effetti dei cambiamenti climatici. Le guerre del petrolio si susseguono a ritmo incalzante, e senza soluzione di continuità dal 2003: Iraq, Libia, Sud Sudan, Nigeria, Yemen. Al centro di tutte le tensioni è il Medio Oriente, che possiede il 47,7% delle riserve accertate di greggio nel mondo.

Le ragioni della guerra in Siria

La guerra in Siria è davvero il paradigma delle guerre contemporanee, per l’intreccio tra terrorismo, guerra civile e guerra tradizionale, per l’intensità della violenza, per lo smisurato numero di vittime civili e di profughi, per il groviglio di dinamiche locali, di interessi regionali, di strategie globali. Ma non c’è solo questo.

Quando scoppia la guerra civile, la Siria è attraversata da profonde tensioni provocate dalla feroce siccità, che l’ha colpita dal 2006 al 2011, che ha distrutto l’agricoltura, facendo impennare i prezzi alimentari, e riducendo in povertà vasti strati della popolazione, come dimostra lo studio pubblicato sui “Proceedings of the National Academy of Sciences” in Le Scienze (5 marzo 2015). A complicare la situazione sul paese in crisi si scaricano “insospettabili” interessi energetici.

Nel 2011 viene reso pubblico uno studio della Cggveritas, una delle principali società di servizi petroliferi e per le prospezioni sismiche al mondo, partecipata al 18% dal governo francese e legata al governo britannico, che esplicita il significativo “potenziale idrocarburico” di tre giacimenti al largo delle coste siriane.

Si parla di 1,7 mld di barili di petrolio e 3,5 trilioni di metri cubi di gas naturale che, secondo lo Strategic Studies Institute statunitense, farebbero parte di un sistema più ampio di giacimenti nel Mediterraneo orientale, che coinvolgerebbe più Stati: il Leviathan (536 mld di m³) e il Tamar (282 mld di m³), di fronte a Israele, e lo Zohr (850 mld di m³) scoperto dall’Eni in Egitto.

Giacimenti che possono modificare la dipendenza dell’Europa dal gas russo e creare i presupposti per nuove competizioni, poiché possono rinforzare l’autonomia energetica di Israele. Come si può facilmente intuire, il controllo di queste risorse diventa una pedina fondamentale della strategia USA-Europa per l’approvvigionamento energetico in Medio Oriente. Ma non basta.

In Siria si gioca anche un’altra “competizione energetica” che riguarda il controllo del gas. Qui dovrebbero passare due gasdotti, quello “sciita”, Islamic Gas Pipeline, voluto da Iran, Iraq e Siria, che avrebbe dovuto portare in Europa il gas dell’Iran, aggirando la Turchia, e quello “sunnita”, sostenuto dagli USA, che dovrebbe portare il gas dal Qatar all’Europa, passando per la Siria e la Turchia. Si veda a proposito il dossier “Signori della guerra, signori del petrolio” di Legambiente.

Lo scoppio della guerra civile fa saltare i progetti di esplorazione occidentali e mette in difficoltà la strategia statunitense che aveva provato a corteggiare Bashar al-Assad – si capisce ora perché, durante la primavera araba, di fronte alle prime violente repressioni delle manifestazioni pacifiche anti Assad, l’allora Segretario di Stato USA, Hillary Clinton, volle sottolineare che Assad era un riformatore – per garantire le attività petrolifere, mentre rinforza i legami di Assad con la Russia, tanto che nel 2013 la società petrolifera russa Soyuz Neftegaz inizia le esplorazioni sulla costa occidentale della Siria.

L’intreccio degli interessi contrapposti, protrae un’estenuante guerra senza che nessuno voglia o possa premere l’acceleratore fino in fondo, come se il disegno fosse quello di puntare alla disgregazione territoriale della Siria e dell’Iraq in aree di influenza ben distinte.

Isis e interessi energetici

A intricare ancor di più il quadro entra in campo l’Isis che, grazie al controllo di alcuni grandi campi estrattivi in Iraq, assume un ruolo nella strategia petrolifera dei saudito-sunniti.

Controllo che ha consentito all’Isis di autofinanziarsi con il contrabbando di petrolio, secondo la Russia nei primi sei anni ha fruttato circa 2 mld $ all’anno, attraverso colonne (non invisibili) di decine di migliaia di autocisterne in viaggio verso i porti turchi del Mediterraneo e da lì in Occidente.

In questo quadro l’Europa, che fa la figura del “vaso di coccio che viaggia insieme a vasi di ferro”, condizionata com’è dal ricatto energetico di Russia e Medio Oriente, si scopre impotente e strozzata dall’alleanza storica con le potenze regionali sunnite, che sostengono l’Isis, da cui i paesi europei comprano il petrolio di contrabbando, finanziando così, paradossalmente non solo il Califfato e la sua guerra, ma anche gli attentati nelle città europee.

Neanche la Russia ha interesse a eliminare definitivamente l’Isis perché la sua presenza impedisce alle forze occidentali di sbarazzarsi di Assad, principale garante per la Russia del suo progetto di sbocco nel Mediterraneo.

Ovviamente non ce l’hanno i paesi arabi, soprattutto Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, che attraverso i propri uomini d’affari e potenti signori locali, finanziano, in qualche modo, l’Isis stesso.

«L’Isis, in altre parole, è un’organizzazione terroristica che gode del sostegno (più o meno diretto) di vari Stati; ed è addirittura finanziata da vari regimi alleati dell’Occidente che sono parte integrale della coalizione anti-Isis», come dice Nafeez Ahmed, Direttore esecutivo dell’Institute for Policy Research and Development, Iprd.

Una situazione in cui l’Occidente si trova impantanato perché per l’accesso alle risorse petrolifere dipende dagli stessi regimi che sostengono il terrorismo.

Il ricatto della Turchia

La Turchia è forse l’anello più eclatante di questa catena di “ricatti” che l’Europa subisce. Perché ha sostenuto l’Isis, non solo coprendone il contrabbando, ma anche facilitando l’attraversamento dei confini ai suoi militanti, combattendo le forze curde, le uniche in grado di contrastare l’Isis sul territorio, e utilizzando i flussi di migranti per condizionare l’Unione Europea.

D’altra parte, nella strategia europea, la Turchia è lo snodo decisivo per aprire il “corridoio meridionale del gas” e ridurre la dipendenza energetica dalla Russia, da cui arrivano all’Unione Europea a 28 Stati il 33,5% delle importazioni di petrolio e il 39,3% di gas naturale (dati 2013).

Erdogan coglie la palla al balzo, trasforma la Turchia in hub energetico con otto gasdotti (tra esistenti, in costruzione o progettati), appoggia la cancellazione del South Stream, che avrebbe mantenuto il monopolio russo, e garantisce l’accesso alle riserve del Mar Caspio e dell’Azerbaijan con il Tap (Trans Adriatic Pipeline), attraverso cui il gas arriverà in Grecia e in Italia.

Dopo il fallimentare colpo di Stato, Erdogan ha avuto bisogno di ricattare l’Europa per proseguire nel suo disegno autoritario, così nell’incontro con Putin del 9 agosto scorso ha rimesso in campo il gasdotto Turkish Stream, che consolida la dipendenza dell’Europa dalla Russia, liberando quest’ultima dal rischio Ucraina (un’altra guerra del petrolio).

La rivoluzione energetica antidoto alla guerra

Il petrolio, quindi, fa la parte del leone nelle motivazioni scatenanti questo coacervo di conflitti armati tra Stati, entro gli Stati, tra gruppi etnici e, per ragioni apparentemente ideologiche o religiose, è anche dietro le più violente forme di terrorismo.

Allora non è utopia pensare che il modo più concreto per contrastare i signori della guerra e costruire una pace duratura sia ridurre il peso delle fonti fossili nel sistema energetico mondiale. La rivoluzione energetica in corso ci offre un’occasione unica.

Secondo l’International Energy Agency (Iea), le rinnovabili saranno la prima fonte di elettricità nel 2040, mentre, da qui al 2020, la produzione di greggio aumenterà del 5% fino al 2040 e successivamente di un altro 5%, con i paesi già sviluppati che caleranno i consumi di un quarto rispetto agli attuali.

In ogni caso, la crescita della domanda di energia sarà garantita molto più dalle rinnovabili e dall’efficienza (per la Iea la domanda di elettricità del mondo crescerà meno che nel passato, circa l’1%, per merito dell’efficienza) che dalle fossili, in un modello distribuito e diversificato (come ci dimostra il fallimento di Desertec), secondo quanto sostiene anche Francesco Starace, Ad di Enel.

Il crollo della domanda di petrolio è strutturale e travalica il rallentamento dell’economia globale, mentre le energie rinnovabili e l’efficienza energetica, grazie alla maggior convenienza tecnologica, economica, climatica e ambientale, attraggono la gran parte degli investimenti del settore.

Secondo il Bloomberg New Energy Finance, infatti, l’andamento degli investimenti in rinnovabili è del tutto indipendente dal trend del prezzo del petrolio­ nel 2015, infatti, anno in cui i prezzi del petrolio collassavano, gli investimenti nelle rinnovabili hanno raggiunto 329 mld $, quintuplicati rispetto a 5 anni prima la crescita nel mondo nel 2015 è stata dell’8,3%, la percentuale più alta mai realizzata.

Perfino nei paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, nel 2015 gli investimenti in energie pulite sono cresciuti del 40% rispetto al 2014, arrivando a 8 mld $.

Il contrasto ai cambiamenti climatici e l’accordo di Parigi della Cop 21, rappresentano così l’unica via attraverso cui passa anche l’inversione di questa drammatica escalation bellica.

Affrontare l’emergenza climatica significa combattere la fame e la povertà, garantire i diritti dei migranti e la democrazia e porre le premesse per la costruzione di una pace duratura. Rivoluzione energetica e giustizia climatica sono due facce della stessa medaglia.

Se si pretende di risolvere i problemi con nuove bombe, se non si garantisce l’accesso all’acqua e all’energia, per garantire condizioni dignitose di vita per tutti, saremo inevitabilmente vittime di queste inaccettabili logiche di guerra di cui, come europei, portiamo pesantissime responsabilità.

L’articolo è stato originariamente pubblicato sul numero 4/2016 della rivista bimestrale QualEnergia, con il titolo “Le guerre del petrolio”

ADV
×