È in vigore l’Accordo di Parigi, interessi contrari e venti di cambiamento

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A meno di un anno dalla sua firma, entra in vigore l’Accordo sul clima di Parigi. Un obiettivo ancora troppo modesto per restare sotto i 2 °C di aumento della temperatura, ma che ugualmente potrà portare a profonde trasformazioni nel sistema industriale ed energetico mondiale.

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Oggi, 4 novembre 2016, a meno di un anno dalla sua firma, entra in vigore l’Accordo sul clima di Parigi. Malgrado non preveda impegni vincolanti, la condivisione da parte di tutti i paesi del pianeta dell’obiettivo di restare sotto 1,5 – 2 °C rispetto ai valori preindustriali ha implicazioni molto chiare.

Per non superare i due gradi, infatti, si potranno emettere solo 800 miliardi di tonnellate di CO2 nel corso di questo secolo, una quantità che verrebbe raggiunta in 22 anni proseguendo con l’attuale livello di emissioni.

È dunque evidente che il perseguimento di questo obiettivo comporterà profonde trasformazioni del sistema energetico, dei trasporti, dell’edilizia, dell’industria e dell’agricoltura, tanto che lo stesso modello economico potrebbe essere rimesso in discussione.

Ma andiamo con ordine. È credibile questo obiettivo? Secondo gli interessi che verrebbero colpiti, no. La Exxon, ad esempio, ritiene “altamente improbabile” che i governi si attivino in questa direzione.

Una valutazione che sembrerebbe avvalorata dagli impegni presi prima di Parigi. In effetti, secondo l’Unep, uno “scenario 2 °C” esigerebbe un livello di emissioni al 2030 inferiore del 25% rispetto agli obiettivi indicati dai vari paesi in vista della Cop21.

Le dinamiche in atto, però, evidenziano un’accelerazione del taglio delle emissioni. Il caso più clamoroso è quello della Cina, responsabile di oltre un quarto della produzione mondiale di CO2. Il paese asiatico si è impegnato a ridurre le proprie emissioni solo a partire dal 2030, quando ormai saranno cresciute del 40% rispetto al 2010. Ma i rapidissimi cambiamenti che si stanno registrando, come il blocco della costruzione di nuove centrali a carbone, fanno ritenere che il picco verrà raggiunto con almeno un decennio di anticipo.

Un dato è certo: le emissioni cinesi, che nel passato decennio crescevano ad un tasso annuo del 7%, nel 2014 e 2015 sono rimaste sostanzialmente stazionarie, mentre quest’anno il consumo di carbone si stima in calo del 4-5%.

Ma torniamo ai combustibili fossili minacciati dalle politiche climatiche. Secondo alcune valutazioni, come quella di Oil Change International, per stare sotto i 2 °C bisognerebbe bloccare la ricerca di tutti i nuovi giacimenti e imparare a gestire il loro declino.

Altre analisi lasciano margini maggiori di crescita, ma è comunque chiaro il rischio che una parte dei futuri investimenti risultino inutilizzabili.

Il combustibile in maggiore difficoltà è il carbone a causa del calo della domanda in paesi chiave come Usa e Cina, proprio per i gravi impatti ambientali e climatici.

Le conseguenze sono evidenti: i principali operatori minerari statunitensi – Peabody, Arch Coal, Alpha Natural Resources e Patriot Coal – sono falliti.

Anche le multinazionali oil&gas, già in affanno, vivono con preoccupazione gli scenari del dopo Parigi. Le esplorazioni continuano, ma vengono eliminate quelle più costose: la Shell ha abbandonato le ricerche nell’Artico, mentre è imminente un declassamento delle riserve di sabbie bituminose canadesi da parte di Exxon. 

Queste scelte sono legate ai bassi prezzi del greggio, ma anche dalla preoccupazione sull’evoluzione climatica, una criticità sempre più presente nelle assemblee degli azionisti. Proprie le politiche del clima possono infatti mettere in ginocchio i produttori.

Se il Protocollo di Kyoto aveva avviato la corsa delle rinnovabili erodendo spazio a carbone e gas, l’Accordo di Parigi accelererà la rivoluzione della mobilità elettrica che, nell’arco di un decennio, farà flettere la domanda di petrolio. Uno scenario che è destinato a mettere in discussione anche un altro comparto industriale, quello dell’auto. I costruttori ritardatari rischiano infatti di pagare un prezzo molto caro.

Da questo punto di vista è emblematica la situazione che si sta delineando in Cina, con la previsione di quote obbligatorie di veicoli elettrici. Le case automobilistiche dovranno infatti dimostrare di avere dei “crediti” legati all’immissione sul mercato di veicoli elettrici sufficienti a garantire la copertura dell’8% delle vendite nel 2018 e il 12% nel 2020. 

La Cina vuole così rafforzare la propria leadership nella mobilità elettrica, spiazzando i competitori che sui veicoli convenzionali si sono dimostrati avversari difficili da battere. Non a caso il vice premier tedesco Gabriel, in visita in questi giorni in Cina, ha immediatamente manifestato la sua preoccupazione (la Volkswagen vende oltre 3 milioni di veicoli l’anno) per obiettivi ambiziosi che vedono impreparata l’industria tedesca. E meno male che c’è stato lo scandalo VW a riorientare le strategie, viene da dire.

Tornando all’Accordo di Parigi e alla sua efficacia, questa non dipenderà solo dalle decisioni dei singoli governi. Il nostro, ad esempio, non sembra essersi accorto della sua esistenza. E negli Usa una eventuale vittoria di Trump potrà solo rallentare le tendenze, non fermarle.

Il fatto è che si sono messi in moto interessi economici e sollecitazioni dal basso di imprese, città, collettività locali. E che l’affermarsi delle “disruptive technologies” offre straordinarie opportunità per accelerare la decarbonizzazione delle economie.

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