Fotovoltaico alla perovskite, è vera gloria?

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Qual è il futuro industriale delle celle solari alla perovskite? Quali sono le efficienze e i vantaggi di questo materiale e quali i limiti tecnici? Ne parliamo con Federico Bella, chimico del Politecnico di Torino che collabora con i colleghi di Losanna su questa tecnologia. La sfida lanciata al silicio e i dubbi su questa tecnologia.

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Il solare del futuro? Ha un nome piuttosto strano, ma, se va come dicono in molti, sarà bene che ci abituiamo a pronunciarlo: “Perovskite”, un composto organico-inorganico che da alcuni anni riempie i bollettini che annunciano i progressi scientifici nel campo delle rinnovabili.

Secondo molti, una volta superati, anche per merito di ricercatori italiani, i problemi tecnici che finora ne hanno impedito la diffusione, la perovskite offrirà una alternativa molto più economica al silicio.

Ma c’è anche chi pensa che la perovskite, ammesso diventi mai un prodotto affidabile, arriva comunque fuori tempo massimo per costituire una vera alternativa.

Partiamo dalla base: cos’è la perovskite?

Il nome designa una vasta classe di minerali, nei cui cristalli un atomo “grosso”, è circondato da una struttura cubica fatta da atomi meno ingombranti.

Questa disposizione è stata poi imitata dai chimici per creare “perovskiti artificiali”, dotate di particolari proprietà elettriche o magnetiche.

Sperimentando con queste, nei primi anni ‘90, ci si accorse che una perovskite costituita da un atomo di piombo circondata da molecole organiche azotate, era in grado di convertire la luce in elettricità, anche se solo con un 3,9% di efficienza.

Quel primo risultato era però già più di quanto raggiunto da altre tecnologie “alternative” al silicio, come quelle a coloranti organici. Quindi la ricerca si intensificò, superando continuamente nuovi traguardi, fino a che, nel marzo scorso, il gruppo di Michael Saliba, del Politecnico di Losanna, ha raggiunto con una cella a perovskite una efficienza del 21,1%.

«Come si vede siamo ai livelli più alti del silicio monocristallino e, in teoria, l’efficienza della perovskite potrebbe crescere fino a circa il 30%», ci dice Federico Bella, chimico del Politecnico di Torino, che collabora con i colleghi di Losanna su questa tecnologia.

«Ma non è tanto l’efficienza a renderla interessante- aggiunge – quanto il fatto che le celle a perovskite si realizzino con una semplice reazione chimica in acqua fra due componenti molto economici, la metilammina e un sale di piombo. Basta spalmare la soluzione su una lastra di vetro, asciugarla a 75 °C, in ambienti normali, ed ecco pronto lo strato fotovoltaico».

Una bella differenza, insomma, con la preparazione delle celle al silicio, che richiedono temperature sopra i 1000 °C, uso di costosi e tossici composti chimici e numerose e complesse fasi di lavorazione, spesso svolte in ambienti ad alto livello di pulizia.

La perovskite ha quindi il potenziale di far crollare ulteriormente i costi degli impianti solari e della elettricità che producono.

Ostacoli tecnici

Ma prima che questo avvenga andranno superati alcuni difficili ostacoli tecnici. Il principale di questi è la durata infinitesima rispetto alle esigenze: un normale pannello a perovskite, esposto all’esterno smette di produrre in circa una settimana, distrutto da raggi UV, umidità e alte temperature.

E proprio qui entra in gioco Federico Bella e il suo gruppo torinese, che con colleghi di Losanna e Milano, ha creato uno scudo protettivo per la perovskite, presentato poi su Science.

«L’idea vincente, sviluppata in tre anni di lavoro, è stata quella di coprire lo strato di perovskite con uno di polimero fluorurato, simile al rivestimento delle pentole antiaderenti. Una volta realizzato lo strato fotoelettrico, ci spalmiamo sopra il monomero fluorurato e con due lampi di ultravioletti, lo facciamo polimerizzare, creando un rivestimento duro e assolutamente impermeabile, che mette al riparo la perovskite dall’umidità. Per proteggerla anche dagli UV il polimero è addizionato con un composto fluorescente che converte gli ultravioletti solari in luce visibile, aumentando così anche la resa del pannello».

Provata in condizioni di usura accelerata in laboratorio, la cella ha perso solo il 2% di efficienza dopo una serie di cicli che hanno simulato sette anni di uso. Resistenza confermata poi dopo altri nove mesi di produzione all’aperto.

«Mancava però da risolvere il terzo tallone di Achille di queste celle: la temperatura», continua Bella. «Sopra i 70 °C la perovskite perde le sue proprietà fotovoltaiche in modo permanente. Ma recentemente il mistero è stato risolto: il colpevole sono gli elettrodi in oro e argento, che al caldo rilasciano ioni che vanno a alterare il reticolo del cristallo. A Losanna hanno sostituito questi con elettrodi in grafite e nanotubi, e il deperimento da temperatura è scomparso».

Resta però ancora un dubbio “ambientale”: verrà accettata una tecnologia rinnovabile che contiene piombo, un metallo pesante altamente tossico? Non potrebbe essere sostituito?

«In teoria sì: la cella che ha raggiunto il 21,1% è fatta con perovskite al cesio, e si può usare come atomo centrale anche lo stagno. Il problema è che questi metalli sono meno stabili del piombo, riducendo la vita della cella. Comunque di piombo in un pannello ce n’è veramente poco e si potrebbe usare quello comunque già nell’ambiente delle vecchie batterie per auto: uno studio americano ha mostrato che gli accumulatori nelle discariche di Boston basterebbero a fare tante celle da coprire il 75% dei consumi elettrici cittadini. E non dimentichiamo che esistono già altri pannelli solari contenenti elementi tossici, come il cadmio».

Quindi la strada per le celle a perovskite sembra aperta: le produrremo in Italia?

«Ci piacerebbe – dice Bella – ma francamente ne dubito. Tempo fa abbiamo inventato delle batterie a polimeri organici innovative: abbiamo provato a chiedere a società italiane se fossero interessate a svilupparle, ma non ci hanno neanche risposto. Così abbiamo venduto il brevetto alla Toyota. Anche in questo caso penso che venderemo i brevetti sul rivestimento ai colleghi di Losanna, che avranno certo meno problemi di noi a trovare industriali disposti a investire nei moduli a perovskite e portarli sul mercato entro pochi anni».

Tanto per cambiare, quindi, l’Italia sembra stare per perdere l’ennesimo treno innovativo, dopo aver contribuito a farlo partire. Ma questo treno carico di perovskite è veramente così lanciato? O non finirà su un binario morto?

Sembra pensarlo uno dei massimi esperti di fotovoltaico in Italia, il chimico Massimo Pagliaro, dell’Istituto per lo Studio dei Materiali Nanostrutturati del Cnr e docente al Polo Fotovoltaico della Sicilia.

«Personalmente non credo che le celle a perovskite andranno molto lontano. Penso che faranno la stessa fine di altre filiere “alternative al silicio”, come il fotovoltaico a polimeri o a coloranti: tante ricerche, tante speranze, ma alla fine poco di concreto».

Eppure sulla perovskite ci lavorano in tanti nel mondo. «Che ci lavorino in tanti, non mi meraviglia: le “promettenti novità” sono il modo migliore per attirare fondi pubblici e privati».

Fare le cose in laboratorio, secondo Pagliaro, è tutt’altra cosa che creare milioni di pezzi standard, che devono funzionare all’aperto per decenni: non sapremo molto sulla reale convenienza delle celle a perovskite, fino a che non si proverà ad industrializzarne la produzione.

«Ma non è questo il punto principale della mia obiezione – aggiunge il ricercatore siciliano – ma il fatto è che secondo me la partita sul solare è finita e l’ha vinta, a parte le briciole lasciate al film sottile, il silicio, un elemento abbondantissimo, stabile, atossico e intorno al quale è ormai nata una industria enorme, che ben difficilmente cambierà cavallo adesso. Se poi consideriamo che la produzione elettrica da silicio ha già raggiunto, nelle condizioni migliori,  prezzi competitivi con il carbone, che vogliamo di più?».

Ovviamente, Federico Bella non è d’accordo.

«Siamo appena agli inizi del mercato del solare, quale siano le tecnologie vincenti lo vedremo forse fra 40 anni. E comunque già ora ci sono mercati in cui il silicio è meno adatto: per esempio la perovskite si presta per fare finestre fotovoltaiche, essendo spalmabile in strati più o meno trasparenti, mentre il silicio è opaco. Inoltre la perovskite funziona meglio in caso di cielo coperto e luce diffusa».

Ma lo scetticismo di Pagliaro ha in realtà radici che vanno al di là della competizione scientifico-tecnologica.

«Secondo i nostri studi ci restano ormai solo otto anni circa per rivoluzionare il sistema energetico, prima che una grave carenza di greggio a basso costo metta in crisi l’economia mondiale e provochi tensioni geopolitiche gravissime. Per questo dovremmo concentrare la ricerca su due fronti: ridurre costi e uso di energia nella fabbricazione delle celle al silicio e, soprattutto, pensare ai sistemi di accumulo. Ormai la questione produzione rinnovabile, fra fotovoltaico ed eolico è risolta, il punto è come rendere questa produzione continua: questa è la grande sfida a cui tutti dovremmo lavorare senza disperdere energie in direzioni ormai non più fondamentali».

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