Imparare a riparare per ridurre gli sprechi

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Siamo a un bivio tra obsolescenza programmata e rigenerazione: per l'industria mettere in commercio beni riparabili e le istruzioni per farlo potrebbe rivelarsi un fattore competitivo. Ma soltanto se in giro ci fossero abbastanza operatori in grado di farlo. Imparare a riparare, per lavoro o passione, è comunque una scelta vincente.

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Leggi l’articolo sulla versione digitale della rivista QualEnergia

Il libro di Serge Latouche “Usa e getta. Le follie dell’obsolescenza programmata” mantiene ancora tutto il suo valore di denuncia.

Il mondo, cioè il sistema capitalistico, funziona ancora così. Tuttavia nelle sue pieghe, le forme di resistenza e di opposizione contro questo spreco di risorse, di denaro, di lavoro e di tempo di vita si stanno diffondendo.

In parte conta la crisi: circola meno denaro tra le classi che sostengono la domanda globale e quindi anche il mercato di sostituzione (mentre ne circola troppo tra chi guadagna tanto da non saper più come spenderlo).

Ma contano anche altri fattori. Il primo è la nausea per la spirale che obbliga a buttar via sempre più cose per comprarne sempre più di nuove. L’alternativa è riparare quello che è guasto o aggiornare ciò che è obsoleto.

Si moltiplicano i laboratori dove si insegna a riparare, aggiornare e modificare beni, abiti, computer, elettrodomestici, mobili, mettendo a disposizione know-how e strumenti per farlo, come il laboratorio itinerante Repair Café fondato in Olanda nel 2008.

I “manifesti del riparare” sono ormai molti: la cultura della riparazione non si appella solo a ragioni economiche (riparare fa risparmiare), ambientali (fa bene alla Terra) o educative (riparando s’impara a conoscere la tecnologia), ma anche a un’etica del rapporto che lega le persone agli oggetti: se non lo aggiusti non lo senti tuo; riparare fa in modo che le persone e le cose creino legami che vanno oltre il consumo; rende orgogliosi delle cose che si hanno; dà un’anima alle cose e le rende uniche.

In questa lotta contro l’obsolescenza programmata le multinazionali che producono beni durevoli non sono rimaste ferme: creano crescenti barriere contro chi cerca di tenere in vita i beni che loro immettono sul mercato: li rendono di difficile apertura per cercare l’eventuale guasto; vietano l’uso di ricambi non autentici e fanno sparire dal mercato quelli originali; vietano l’intervento di operatori indipendenti non convenzionati, nascondono le istruzioni per la manutenzione.

“L’Internet delle cose“, l’elettronica presente in misura crescente nei beni di consumo durevoli, è diventata un’arma per tener lontani i tecnici indipendenti; anche se si trovano i pezzi di ricambio, per poterli utilizzare spesso occorre una password cui solo i tecnici autorizzati hanno accesso.

Così, si sono formate delle associazioni di tecnici indipendenti che fanno lobbying per rivendicare una legislazione che vieti queste pratiche e consenta il libero accesso ai ricambi, alle istruzioni, alle password e agli strumenti specialistici per intervenire.

Riparare è un’attività più complessa e intelligente rispetto a quella del fabbricare. I beni di consumo durevoli sono prodotti in serie, in catena di montaggio, dove le operazioni da compiere sono sempre le stesse. I beni da riparare, invece, sono uno diverso dall’altro per marca, modello, anno di fabbricazione, guasto.

Ogni prodotto richiede un’indagine ad hoc: conoscenze tecniche, intelligenza, manualità, inventiva. Il lavoro del tecnico è “personalizzato” non solo sul cliente, ma anche sull’oggetto che, attraverso il suo guasto specifico, acquista una propria individualità. Per questo prefigura il superamento di quella serialità che è il tratto costitutivo dell’epoca “fordista”.

Anche l’industria comincia a capirlo: mettere in commercio beni facilmente riparabili e le istruzioni per farlo può rivelarsi un fattore competitivo. Ma soltanto se in giro c’è già un certo numero di operatori in grado di mettervi mano. Per questo imparare a riparare, per passione o per lavoro, è comunque una scelta vincente.

L’articolo è stato originariamente pubblicato sulla rivista bimestrale QualEnergia n.3/2016 con il titolo “La password sugli oggetti”

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