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Il nucleare, tecnologia “prepotente”, che non fa bene al clima

Una ricerca mette in dubbio il fatto che affidarsi al nucleare sia una strategia vincente per una decisa politica climatica. La presenza di centrali atomiche, con l’intenzione di mantenerne o aggiungerne in futuro, sembra agire da freno a tutte le altre soluzioni per decarbonizzare l'economia.

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Quando si discute con chi ritiene che l’energia nucleare sia un buon sistema per dare al mondo tanta energia senza produrre troppa CO2, salta sempre fuori la stima fatta dalla World Nuclear Association.

L’associazione mondiale del nucleare, infatti, afferma che se nel 2011 l’energia prodotta dalle centrali nucleari fosse stata prodotta da centrali a carbone, il mondo avrebbe emesso 2,2 miliardi di tonnellate di CO2 in più, sui 30 totali.

Estrapolando il dato agli ultimi trent’anni, periodo in cui la potenza nucleare mondiale è rimasta più o meno costante, si evince che il nucleare abbia fatto risparmiare al mondo circa 60 miliardi di tonnellate di CO2, cioè due interi anni di emissioni.

Impressionante, se non fosse che, appunto, l’aumento di potenza nucleare nel mondo si è quasi fermato: fra il 1996 e il 2015 sono stati chiusi 75 reattori e 80 sono partiti.

Non è chiaro se, come i suddetti “nuclearisti” sperano, in futuro ci sarà un rinascimento nucleare: visto che nei prossimi 20 anni arriverà a fine vita un’altra grossa fetta degli attuali 440 reattori, fra cui il grosso del nucleare francese e Usa, con la chiusura di 132 impianti.

In teoria il numero di nuovi reattori aperti entro quella data, 287, dovrebbe più che compensare la perdita di vecchia potenza, ma bisognerà vedere quanti dei reattori oggi progettati arriverà veramente ad essere realizzato.

Le ragioni dello stallo nucleare sono note e molto dibattute: i grandi incidenti, l’aumento dei costi e della complessità della tecnologia, la diffidenza di finanza e assicurazioni, la concorrenza delle rinnovabili, l’ostilità di politica e opinione pubblica in molte parti del mondo.

Comunque sia, secondo l’eminente climatologo della Nasa, oggi in pensione, James Hansen, sarebbe ora di superare questi ostacoli e obiezioni, perché l’emergenza climatica lo richiede: il nucleare, secondo lui, è l’unica fonte a basse emissioni di CO2 che possa rapidamente sostituire il base load affidato a carbone o gas in gran parte del mondo.

Una ricerca del professore di politica della scienza Andy Stirling, della Università del Sussex, però, mette decisamente in dubbio il fatto che affidarsi al nucleare sia una strategia vincente per quanto riguarda le politiche climatiche, almeno in Europa.

Come riportato sulla rivista Climate Policy (link in basso), secondo Stirling pare che il nucleare sia piuttosto un ostacolo alla riduzione delle emissioni e all’installazione di impianti a rinnovabili, che, comunque, per abbandonare del tutto i fossili, dovrebbero continuare ad essere massicciamente installate.

Per arrivare a questa conclusione Stirling ha considerato il mix energetico dei paesi della UE e i progressi che hanno fatto nella riduzione delle emissioni di CO2 e nell’installazione di rinnovabili.

L’UE al momento ospita 132 reattori (metà in Francia), che producono un quarto dell’elettricità mondiale da questa fonte. Ma questi reattori sono distribuiti in modo molto ineguale fra i paesi europei, così come molto diverso è l’atteggiamento verso il loro utilizzo presente e futuro.

Per semplificare le cose nella ricerca i paesi sono stati divisi in 4 gruppi:

1) Quelli che non hanno nucleare e non intendono averlo (come Irlanda, Italia, Austria, ecc.)
2) Quelli che hanno nucleare ma intendono abbandonarlo (Germania, Svizzera, Olanda, ecc.)
3) Quelli che hanno nucleare e intendono mantenerlo o incrementarlo (Francia, Uk, Finlandia, Ungheria, ecc.)
4) Quelli che non hanno nucleare, ma intendono cominciare ad averlo (Lituania e Polonia).

Successivamente Stirling ha valutato quali progressi abbiano fatto questi paesi fra 2005 e 2015, nell’avvicinarsi a due degli obbiettivi del 2020, cioè -20% di emissioni di CO2 sul 1990, e arrivare ad avere almeno il 20% di elettricità da rinnovabili.

Ebbene il verdetto è netto: i paesi del gruppo 1 hanno conseguito una riduzione media del 6% di CO2 e sono al 26% di produzione da rinnovabili, mentre quelli del gruppo 2 sono a -11% e 19% rispettivamente.

Venendo ai paesi “filonucleari”, il gruppo 3 ha addirittura aumentato le emissioni di CO2 del 3% e ha raggiunto il 16% di elettricità rinnovabile, mentre il gruppo 4 è a un disastroso +15% di gas serra e 15% di rinnovabili.

Insomma, la presenza di nucleare, con l’intenzione di mantenerlo o aggiungerlo in futuro, sembrano agire da freno per il raggiungimento degli obbiettivi climatici, almeno nel caso europeo di questi ultimi anni.

Bisogna però notare che a peggiorare molto le performance del gruppo “filonucleare”, sono gli i paesi dell’ex blocco sovietico nel gruppo (come Bulgaria e Romania) che, partendo da economie molto povere, hanno potuto aumentare le loro emissioni di CO2 fino al 20% sul 1990.

Nel gruppo, comunque la Francia arranca un po’ nella diminuzione di CO2, -14%, mentre vanno un po’ meglio Regno Unito e Finlandia, -16%.

La Francia è anche indietro sul target delle rinnovabili e l’UK molto più indietro, 14% e 5%, rispettivamente; mentre quasi tutti i paesi dell’est “filonucleari” sono vicini a raggiungerlo, tranne Slovacchia, Ungheria e Polonia, che restano intorno al 10%.

Ma perché il nucleare sarebbe di ostacolo alle politiche climatiche? Secondo Stirling ci sono tre ordini di motivi.

Prima di tutto il nucleare non è una fonte come le altre: per la sua complessità, difficoltà di gestire combustibile e scorie e potenziale pericolosità, richiede un forte intreccio con politica, istituzioni, ricerca, militari, eccetera. Insomma, tende a diventare una sorta di Stato nello Stato, in grado di influenzare la politica energetica, non certo favorendo le sue alternative.

Secondariamente il nucleare abitua gli organismi tecnici a una produzione di energia molto centralizzata, molto abbondante e molto continua, il contrario di quella che generano le nuove rinnovabili, il che aumenta le resistenza al cambiamento e diminuisce la spinta verso un uso efficiente.

In terzo luogo il nucleare costa molto caro nella fase  di progettazione e installazione, circa 5-7 miliardi di euro per una centrale da 1000 MW, e quindi tende a drenare molte risorse, private e spesso anche pubbliche, non solo lasciando poco spazio alle altre fonti, ma anche “bloccando le scelte”, nel senso che anche se in futuro si trovassero migliori alternative, la massa di denaro già speso rende difficile tornare indietro su quanto fatto.

Tutto questo fa sì che i paesi che hanno adottato massicciamente il nucleare, spesso si trovano in una situazione in cui hanno difficoltà a prendere in considerazioni e investire seriamente su fonti rinnovabili, anche se queste riuscirebbero a far diminuire le emissioni molto più rapidamente e, ormai, spesso anche in modo più economico di quanto farebbero nuove centrali nucleari che, come si sa, quasi sempre sfondano di gran lunga tempi di realizzazione e budget.

Per fare un esempio chiarificatore attuale, la nuova centrale nucleare Epr di Hinkley Point in Inghilterra, obbligherebbe gli inglesi per 30 anni, a partire da circa il 2025, ad accettare la sua elettricità a 117 euro/MWh (indicizzati), il doppio del prezzo medio attuale del MWh all’ingrosso in Gran Bretagna.

Se per allora le rinnovabili, come probabile, offrissero alternative più economiche, non si potrebbe comunque tornare indietro sugli impegni presi e dirottare su di loro quell’enorme investimento.

«Presentando il nucleare isolato dal contesto reale – sintetizza Stirling – lo si promuove con enfasi come un’ottima opzione per contenere il cambiamento climatico. In realtà quando lo si mette a confronto con le alternative in modo rigoroso, saltano fuori molte domande riguardo alla sua effettiva economicità, efficienza, rapidità di risposta e sicurezza. Esaminando poi i dati storici, come abbiamo fatto con questa ricerca, ecco che questi dubbi trovano una conferma: il nucleare tende a diventare una scelta “prepotente”, che comprime o esclude le altre opzioni, diventando così alla fine controproducente nella lotta al cambiamento climatico».

E se Stirling ha ragione, considerando che i paesi europei prevedono di spendere 704 miliardi in investimenti nel nucleare fra il 2010 e il 2050, di cui 270 entro i prossimi 14 anni, viene da pensare che forse sarebbe bene fermarsi e riflettere se quegli investimenti non sarebbero più fruttuosi impiegati altrove, nell’ottica di una più efficace lotta al cambiamento climatico.

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