Perché Kyoto è stato un successo, nonostante tutto

L'accordo del 1997 ha portato a superare l'obiettivo che si era fissato, anche tenendo conto delle riduzioni “involontarie”, come quelle causate dalla crisi del blocco sovietico. Ma soprattutto ha aperto una nuova era, ponendo le basi per gli accordi successivi, senza costarci neanche troppo ed evitandoci qualche guaio.

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Pochi trattati internazionali sono stati più discussi e bistrattati di quello di Kyoto del 1997. Il protocollo per ridurre entro il 2012 del 5% le emissioni di CO2, rispetto a quelle del 1990, è stato fin da subito oggetto di critiche, per la scarsa ambizione, per il fatto che impegnasse solo i 38 paesi più ricchi del pianeta, esentando le nuove potenze industriali, e per i tanti e complessi meccanismi che consentivano riduzioni “solo sulla carta“ delle emissioni.

Obiettivo superato

Nel 2001 il trattato di Kyoto perse poi il “contraente principale”, gli Stati Uniti, allora il maggiore emettitore di CO2 del mondo, che sotto la presidenza Bush non ne ratificarono l’adesione; ciò fece calare ulteriormente le sue ambizioni, con l’obbiettivo di riduzione dei gas serra nei 37 paesi rimasti portato al -4,2% sul 1990.

Dopo l’entrata in vigore del trattato, avvenuta nel 2005, si è anche avuta la defezione del Canada (in pieno boom di petrolio da catrame) e quella sostanziale, anche se non formale, del Giappone (impossibilitato a rispettare i patti, dopo la chiusura, post Fukushima, del suo nucleare), che hanno reso il quadro ancora più fosco.

Così, dopo la conclusione del periodo di valutazione della sua efficacia, 2008-2012, si sono moltiplicati i cori di “Kyoto non è servito a nulla”, “è stato un fallimento”, “ci è costato un occhio per nulla” e così via.

A ripristinare un po’ di verità scientifica su questo accordo arriva ora un nuovo lavoro pubblicato su Climate Policy da Igor Shishlov, dell’Institute for Climate Economics, e suoi colleghi, che mette la parola fine a queste lamentele: Kyoto è stato un successo, che ha aperto una nuova era, senza costarci neanche poi tanto, soprattutto se si considerano i guai che potrebbe averci evitato.

I dati, in effetti, parlano chiaro: le 36 nazioni rimaste vincolate al trattato dovevano ridurre le loro emissioni del 4,2% rispetto ai livelli del 1990, ma alla fine del 2012 le avevano ridotte del 16%, “sforando” il loro target di ben 2,4 miliardi di tonnellate di CO2 l’anno (GtCO2/a).

Risultato a prova di “aria calda” dall’ex-URSS 

Queste 2,4 GtCO2/a ulteriori in meno, in realtà, possono essere quasi interamente spiegate dalla cosiddetta “hot air”, cioè la fisiologica diminuzione delle emissioni in Russia e negli altri paesi dell’ex blocco sovietico dopo il 1989, dovuta alla chiusura in massa delle vecchie, inefficienti e inquinanti fabbriche di Stato.

L’enorme massa di ”aria calda” dai paesi ex comunisti era stata messa in conto come compensazione delle emissioni di Usa e Canada, che, si sapeva, avrebbero avuto grosse difficoltà a calare di quanto richiesto. Uscite quelle due nazioni, il calo delle emissioni dei paesi dell’Est Europa ha praticamente quadruplicato le riduzioni ottenuta dal trattato di Kyoto.

Ma anche fatta la tara di quel fattore, le emissioni sono calate di circa 200 MtCO2/a più del previsto, anche se non tutti i paesi sono riusciti a rispettare il loro target.

Chi ce l’ha fatta e chi no

A parte il caso del Giappone, lo hanno mancato anche Islanda, Liechtenstein, Norvegia, Svizzera, Lussemburgo, Danimarca, Austria e Spagna, ma le loro 80 MtCO2/a di emissioni oltre l’obiettivo (44 solo dal Giappone) sono state più che compensate da cali più alti del previsti da parte di quasi tutti gli altri contraenti, fra cui spiccano i -80 MtCO2/a del Regno Unito, i -59 della Francia e i -40 della Germania. L’Italia, da parte sua, considerando anche l’aumento delle foreste, ha superato il suo obiettivo, -6% sul 1990, di 2 MtCO2/a (vedi grafici sotto con varaizioni assolute e in percentuale).

Certo, diranno molti, ci siamo riusciti perché la crisi economica ha tagliato la produzione industriale. Oppure perché la Cina si è messa produrre (e inquinare) al posto nostro. Oppure perché Kyoto ha permesso di ottenere sconti, portando avanti discutibili progetti di riduzione delle emissioni in paesi in via di sviluppo.

Tutti questi fattori sono in realtà presi in conto dal rapporto, che conclude, comunque, che più della metà della riduzione di emissioni è stata assoluta, non frutto di trucchi contabili, ed è dipesa dall’impegno messo dai paesi del trattato per ridurre gli sprechi energetici e impiegare fonti rinnovabili e metano a casa loro.

Sì, ma e il clima?

Ma anche così resta la critica più forte che si fa al protocollo di Kyoto, non essere servito a nulla da un punto di vista climatico: nel 1990 le emissioni globali erano 22 GtCO2/a, nel 2008 erano ormai a 30 GtCO2/a e al 2012, alla fine del periodo del trattato, erano arrivate a 32 GtCO2/a.

«Ma questo è un grande equivoco», ci dice Massimo Caminiti, esperto di politiche climatiche e delegato ENEA al Summit di Parigi sul clima del 2015. «Kyoto non doveva servire a ‘salvare il clima’. La scelta di interessare solo i paesi più ricchi, allora i maggiori emettitori mondiali, e con un target di riduzione piuttosto ridotto, fu presa sia per ottenere un largo consenso su obiettivi realistici, sia perché lo scopo di Kyoto era quello di sperimentare l’efficacia e la sostenibilità economica delle varie politiche per la riduzione delle emissioni. In questo modo si sarebbe dimostrato al mondo, che una riduzione era possibile, senza pregiudicare lo sviluppo economico. In questo il protocollo di Kyoto è servito perfettamente allo scopo».

Se Kyoto non fosse mai entrato in atto, aggiunge Caminiti, «forse non ci sarebbe stato l’impegno europeo per la riduzione delle emissioni legato a quel trattato, né il successivo obiettivo del  20-20-20, che nasce come continuazione di Kyoto».

Se è così l’EU non avrebbe fatto da traino all’azione climatica mondiale e non avrebbe, per esempio, investito così massicciamente nello sviluppo delle energie rinnovabili, facendo da innesco per lo sviluppo di una grande industria del solare, dell’eolico e delle biomasse che, quindi, sarebbero rimaste molto costose, e oggi non avrebbero potuto essere utilizzate massicciamente in tutto il mondo.

Senza Kyoto non avremmo avuto Parigi

«Senza Kyoto – continua Caminiti – il suo esempio, la messa alla prova dei vari meccanismi e i suoi effetti finali, oggi probabilmente non avremmo neanche l’attuale impegno cinese nella riduzione dell’uso del carbone, e quello americano, basato sulla sostituzione del carbone con gas naturale e adesso anche con la massiccia installazione di rinnovabili. Svolte che hanno contribuito alla stasi nel 2014 e 2015 dell’aumento delle emissioni di CO2, nonostante l’economia del mondo sia cresciuta di almeno altri sei punti. Insomma, saremmo ancora all’anno zero, o quasi, nella lotta al cambiamento climatico».

Kyoto, dunque, è anche dietro all’accordo di Parigi? «Certamente – continua l’esperto ENEA – e non solo perché deriva dalla COP3 (terza Conferenza delle Parti Onu, ndr), così come l’accordo di Parigi viene dalla COP21, ma anche perché Kyoto è stata una fondamentale lezione per chi ha costruito l’accordo di Parigi».

Mentre la Convenzione Quadro di Rio del 1992, sottoscritta da quasi tutto il mondo, prevedeva un generico impegno nel limitare la crescita delle temperature mondiali, spiega Caminiti, il Protocollo di Kyoto prevedeva dei precisi obblighi vincolanti sulla riduzione delle emissioni. «Kyoto, quindi, era più difficile politicamente da far accettare, richiedendo, per esempio, una nuova ratifica da parte  da parte del Congresso Usa, paese notoriamente spaccato a metà sulle scelte climatiche. E, infatti, quella ratifica non è mai arrivata. Per questo a Parigi si è tornati a parlare solo di temperature, e non più di emissioni, tornando a fare riferimento alla già accettata da tutti Convenzione di Rio, così da non richiedere un’ulteriore ratifica da parte del Congresso Usa, che non sarebbe probabilmente arrivata».

Molti danni evitati con poco sforzo

Se è così, al protocollo di Kyoto dobbiamo, insomma, la creazione, sia pure lenta e tardiva, di una politica globale per contenere le emissioni di gas serra, e questo ci permette di affrontare il capitolo di quanto ci sia costato questo accordo, rispetto a quanto potrebbe averci fatto guadagnare.

Secondo il famoso Rapporto Stern del 2006, l’inazione in campo climatico potrebbe costare il 3% del PIL mondiale, se le temperature salissero fino a 3 °C sopra quelle preindustriali, e fino al 10% se arrivassero a +6 °C. E si tratta di una media alla “polli di Trilussa”, con i paesi tropicali più poveri che soffrirebbero in modo sproporzionato di queste perdite.

Secondo Shishlov e colleghi, invece, il rispetto del trattato di Kyoto è costato lo 0,1% del PIL dei paesi che lo hanno ratificato, non esattamente una spesa rovinosa per le economie di paesi fra i più ricchi del mondo.

Aggiungiamoci i risparmi su salute e ambiente consentiti dal minore inquinamento e quelli connessi ai rischi geopolitici, che calano in un mondo che non dipende più da concentrate e limitate riserve di combustibili fossili, e vediamo che il Protocollo di Kyoto, se avrà veramente innescato la decarbonizzazione del sistema energetico, si sarà rivelato un ottimo investimento.

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