TAP, partono i lavori in Grecia. Il ruolo italiano e il futuro degli approvvigionamenti in UE

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A Salonicco la cerimonia d’inaugurazione per l’avvio dei lavori del gasdotto TAP. Presente anche il ministro Calenda, che ha ricordato il ruolo attivo del nostro Paese nell’approvare il corridoio meridionale del gas dal Caspio all’Europa. Ripercorriamo la storia del progetto. Sarà utile o meno?

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C’erano proprio tutti alla cerimonia d’inaugurazione dei lavori per realizzare la Trans Adriatic Pipeline (TAP), il gasdotto che porterà il combustibile dal Mar Caspio all’Europa. A Salonicco erano presenti ovviamente il premier greco Alexis Tsipras, quello georgiano Giorgi Kvirikashvili, il vicepresidente della Commissione Ue e responsabile per l’Unione energetica, Maros Sefcovic, il neo ministro italiano dello Sviluppo economico, Carlo Calenda.

L’occasione era immancabile per tutti i sostenitori del molto propagandato “corridoio Sud” del gas, la cui costruzione è vista come una pietra miliare per aumentare la sicurezza energetica del Vecchio continente, variando il mix degli approvvigionamenti e riducendo il peso dell’export russo.

Il puzzle dei gasdotti

Per prima cosa, conviene ricordare le caratteristiche del progetto e capire quali saranno le future interconnessioni con il Medio Oriente. L’obiettivo del gasdotto transadriatico è rifornire l’Europa con 10 miliardi di metri cubi/anno di metano, estratto dai nuovi giacimenti di Shah Deniz in Azerbaijan.

La linea correrà per 870 km dalla Grecia alle coste italiane della Puglia (l’approdo dei tubi è previsto in località San Foca, nel Salento), attraversando l’Albania e l’Adriatico con un tratto sottomarino di un centinaio di chilometri. Il puzzle dei tubi è molto più complesso di così: TAP dovrà collegarsi al gasdotto TANAP (Trans Anatolian Natural Gas Pipeline), infrastruttura di 1.850 km in territorio turco, la cui entrata in esercizio è stata fissata al 2018. Le due linee si uniranno a Komotini, sul confine tra Grecia e Turchia.

Le risposte russe

TANAP, a sua volta, si collegherà alla tratta SCP (South Caucasus Pipeline) che passa in Georgia e Azerbaijan fino al Mar Caspio e ai suoi giacimenti di gas. Per l’Europa, questo corridoio meridionale ha sempre rappresentato una “prova di forza” contro l’egemonia della Russia nelle forniture di combustibile.

Mosca ha cercato più volte di ostacolare i piani europei, promuovendo progetti alternativi e concorrenti al TAP: dapprima il faraonico South Stream, poi accantonato dallo stesso presidente Vladimir Putin, mentre ora si parla di raddoppiare il North Stream, il gasdotto che porta il metano russo in Germania attraverso il Baltico (con la possibilità di un coinvolgimento italiano nell’operazione, tramite Saipem).

Senza dimenticare i più recenti piani di Gazprom riguardo Poseidon, una linea offshore-adriatica per trasportare il solito gas moscovita dalla Grecia all’Italia, ma non è ancora chiaro se, come e quando il progetto andrà realmente in porto.

Tornando all’avvio dei lavori in Grecia per l’infrastruttura sponsorizzata dall’Europa, ricordiamo che le società interessate sono sei: oltre alla nostra Saipem, che alla fine dello scorso anno ha rilevato il 20% del pacchetto dalla norvegese Statoil, troviamo BP e Socar, entrambe con il 20%, poi la belga Fluxys, la spagnola Enagas e la svizzera Axpo, tutte con percentuali inferiori. L’investimento per il solo TAP è stato stimato in oltre 4 miliardi di euro, ma la cifra complessiva per l’intero corridoio dovrebbe aggirarsi sui 45 miliardi.

TAP e l’Italia

Il ministro Calenda, nel suo discorso a Salonicco, ha ricordato il ruolo attivo svolto dall’Italia. Era stato proprio Matteo Renzi, infatti, ad accelerare tutte le procedure per approvare la parte italiana del progetto TAP. L’impressione, tuttavia, è che dietro il paravento della sicurezza energetica si nasconda una politica un po’ obsoleta, ancora centrata sulle fonti fossili.

Da un lato, se il gas costituisce, a detta di alcuni osservatori, il “combustibile-ponte” nella transizione dagli idrocarburi alle tecnologie pulite, va detto che le grandi infrastrutture (non solo gasdotti, ma anche terminali LNG e rigassificatori) vanno pianificate con lungimiranza, al pari degli impianti alimentati dalle fonti rinnovabili. Quindi è giusto interrogarsi sul futuro delle forniture di gas verso l’Europa, puntando a variare le rotte d’importazione e ridurre così potenziali scontri geopolitici, causati ad esempio dalla cronica instabilità dell’Ucraina e della Libia.

Dagli idrocarburi alle rinnovabili

Sull’altro piatto della bilancia, però, bisogna considerare la probabile evoluzione del mix energetico. L’Italia mostra un quadro altalenante: 66,9 miliardi di metri cubi di gas consumati nel 2015, +9% rispetto al 2014, ma -22,4% in confronto al picco registrato nel 2005. La crisi della grande industria, la crescita delle rinnovabili, l’incremento dell’efficienza energetica nei trasporti e nell’edilizia, sono tutti elementi che dovrebbero contribuire a ridurre la domanda futura di gas.

Maggiore attenzione, poi, il nostro Governo dovrebbe riservare allo sviluppo di una nuova filiera del biometano, che secondo le stime del Consorzio Italiano Biogas potrebbe valere oltre il 10% dei consumi nazionali di gas naturale. Il biometano, ottenuto attraverso la “purificazione” del biogas dopo la digestione anaerobica di materie prime vegetali, può essere immesso nella rete nazionale o essere impiegato nei trasporti (auto private soprattutto). È una frontiera finora sottovalutata, ma con ampi margini di crescita, grazie alla disponibilità di biomassa sul territorio nazionale.

Come si vede, insomma, dietro la partita internazionale dei gasdotti ci sono altre scelte strategiche che sarebbe opportuno valutare, sempre nell’ottica di variare gli approvvigionamenti, favorire la concorrenza tra le diverse fonti e la creazione di posti di lavoro nello Stivale.

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