Cassazione: avanti con referendum su trivelle in mare. Inutili le modifiche del Governo

  • 11 Gennaio 2016

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Il Governo Renzi non è riuscito a evitare il referendum sulle trivellazioni. Nonostante le modifiche introdotte con la Legge di Stabilità 2016 il quesito sulle estrazioni in mare ha motivo di svolgersi. Bocciati invece i quesiti sul Piano Aree e la durata dei permessi in terraferma.

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Nell’attesa del giudizio della Corte costituzionale, che arriverà il 13 gennaio, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sul referendum No Triv, a seguito delle modifiche introdotte dal Parlamento con la Legge di stabilità 2016 in vigore dal 1° gennaio.

Un atto dovuto, secondo quanto previsto dalla legge sul referendum del 1970, che stabilisce che se prima della data dello svolgimento del referendum le disposizioni di legge “cui il referendum si riferisce siano state abrogate, l’Ufficio centrale per il referendum dichiara che le operazioni relative non hanno più corso”; a meno che, si intende, le modifiche non siano solo di facciata. Nel qual caso, il referendum si terrà lo stesso.

Ed è esattamente quello che la Cassazione ha concluso il 7 gennaio scorso con riguardo al referendum sulle attività petrolifere entro le 12 miglia marine: l’emendamento introdotto dal Governo non soddisfa la richiesta referendaria. Esso, in altri termini, la elude, in quanto – come già denunciato dal Coordinamento Nazionale No Triv – la modifica voluta dal Governo, pur facendo salvi i permessi e le concessioni già rilasciati, ne allunga arbitrariamente la durata.

In questo modo, i permessi di ricerca non avrebbero scadenza alcuna e di fatto resterebbero “congelati” in attesa di tempi migliori. Per questa ragione, il Coordinamento Nazionale No Triv sta per indirizzare al Ministero dello Sviluppo Economico una diffida affinché chiuda definitivamente tutti i procedimenti attualmente in corso relativi a progetti petroliferi ricadenti entro le 12 miglia marine.

La Cassazione, tuttavia, ha ritenuto che non si debba procedere a referendum su altri due quesiti: quello sulla durata dei permessi e delle concessioni in terraferma e quello sul Piano delle Aree, strumento di programmazione volto ad individuare quali aree interdire e quali, invece, “aprire” alle attività petrolifere. In quest’ultimo caso il Parlamento ha sottratto al corpo elettorale la norma sulla quale votare: abrogando totalmente la norma sul Piano delle Aree, è sparito anche l’oggetto del referendum.

Pertanto, affinché i delegati regionali possano esercitare fino in fondo il compito assegnato loro dai rispettivi Consigli Regionali di appartenenza e i cittadini italiani possano esprimersi democraticamente sull’opportunità che tutti i titoli minerari siano rilasciati non in modo “selvaggio”, ma sulla base di un piano, elaborato congiuntamente dallo Stato e dagli enti territoriali, coerenza vuole che il problema sia portato all’attenzione della Corte Costituzionale.

Per fare ciò, è necessario che le Regioni promotrici del referendum sollevino un conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte Costituzionale nei confronti del Parlamento. Al momento sei delle dieci Regioni promotrici del referendum hanno annunciato di voler sollevare il conflitto di attribuzione: Basilicata, Sardegna, Veneto, Liguria, Puglia e Campania.

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