Clima e decarbonizzazione secondo la IEA di Fatih Birol

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L'Agenzia Internazionale per l'Energia, tradizionalmente conservatrice, ultimamente mostra una maggiore apertura, sottolineando la necessità di ridurre le emissioni di gas serra e puntare di più sulle fonti rinnovabili. Un segno dei tempi? Ne parliamo in un'intervista a Fatih Birol, nuovo direttore esecutivo.

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L’International Energy Agency, l’agenzia dei paesi più sviluppati che si occupa di elaborare studi e scenari sulle questioni energetiche, è stata per lungo tempo la «bestia nera» degli ambientalisti, con le sue previsioni sul sistema energetico che prevedevano irrealistiche crescite nell’uso dei combustibili fossili, e ruoli marginali per quelle rinnovabili, come se avessimo a disposizione un’altra Terra da cui estrarre petrolio e su cui scaricare i nostri rifiuti.

Ma da qualche anno, anche sotto la guida del suo capo economista, il turco Fatih Birol che sovrintende al più importante lavoro annuale dell’Agenzia, il World Energy Outlook, la IEA ha mutato atteggiamento, ponendo grande attenzione ai temi del cambiamento climatico.

Da settembre Fatih Birol è diventato direttore esecutivo dell’agenzia, e l’ultimo rapporto sulle politiche climatiche dell’agenzia, lo Special Briefing for COP21, è stato persino lodato da Greenpeace, un’associazione che vedeva la IEA con la stessa simpatia che gli esorcisti riservano a Satana. Abbiamo posto qualche domanda su questi temi allo stesso Fatih Birol.

Dottor Birol, cosa suggerisce la IEA ai governi riuniti a Parigi, per riuscire a mantenere il livello di CO2 sotto le 450 ppm e l’aumento delle temperature mondiale sotto ai 2 °C?

Essenzialmente questo: dobbiamo dimezzare le emissioni di gas a effetto serra entro il 2050, raggiungendo il picco delle emissioni non oltre il 2020. Ma al momento, con gli attuali impegni, il picco lo si raggiungerà dopo il 2030, e quindi i 2 °C saranno superati. Si può rimediare intervenendo in cinque direzioni, tutte alla portata delle tecnologie ed economie attuali: aumentare l’efficienza energetica in industria, trasporti e residenziale; chiudere e bandire l’uso delle centrali a carbone meno efficienti; aumentare l’investimento in rinnovabili da 270 miliardi di $ del 2014 ad almeno 400 miliardi nel 2030; eliminare i sussidi alle fonti fossili, che oggi ammontano a circa 500 miliardi di $ nel mondo; ridurre le perdite di metano dalle operazioni gas&oil. Molte di queste misure sono già previste nei piani dei vari paesi, ma a un livello insufficiente: bisogna investirci un 20% in più, cioè altri 3000 miliardi di dollari.

Voi insistete molto sull’eliminazione dei sussidi alle fonti fossili, ma questi sono concentrati nei paesi in via di sviluppo e spesso aiutano la parte povera della popolazione a sopravvivere …

È vero che questi sussidi sono concentrati nei paesi emergenti, ma studi nostri e del FMI mostrano che in realtà al 20% più povero della loro popolazione va solo il 7-8% di essi. Questi sussidi promuovono un enorme spreco di combustibili fossili, buttando via con essi anche denaro che potrebbe essere usato meglio, per esempio alleviando la povertà con altre misure. Tagliare i sussidi può essere impopolare, ma i livelli inaccettabili di inquinamento di molte città aiutano a far capire l’importanza di usare meglio l’energia. Del resto governi come quello indiano, malese o indonesiano li hanno già riformati, facendone scendere l’importo di 120 miliardi.

Il basso prezzo del petrolio aiuta o danneggia le politiche climatiche?

In teoria le dovrebbe danneggiare, e non poco: un nostro scenario 2015, che include un basso prezzo del greggio, vede la scomparsa di 800 miliardi di investimenti in efficienza energetica entro il 2040. Ma non è detto: i governi potrebbero anche approfittare dei prezzi bassi per introdurre misure di lungo termine troppo dolorose in altri momenti, come tasse sulla CO2 e limitazioni ai suddetti sussidi.

Che ruolo possono avere le corporation energetiche nella lotta al cambiamento climatico? Finora l’hanno soprattutto ignorata, se non ostacolata.

Se non prenderanno seriamente in considerazione il nuovo scenario della politica climatica, i loro profitti saranno seriamente colpiti. Devono essere pronti a giustificare davanti agli investitori le loro strategie future, anche tenendo conto dei rischi dovuti al climate change e alle politiche per limitarlo. Per questo, come del resto spesso stanno già facendo, credo che dovranno fortemente diversificare le loro attività, anche in direzione delle rinnovabili. E questa tendenza sarebbe ulteriormente accelerata, se dalla Cop21 arrivasse un forte segnale di cambio di rotta mondiale. Ma già prima della Cop 21, a ottobre, 10 grandi corporation del settore oil&gas, fra cui l’Eni, hanno chiesto l’istituzione di una tassa globale sulla CO2.

Però, nonostante quanto detto finora la IEA continua a vedere un ruolo centrale per il carbone: anche nel World Energy Outlook 2015 è previsto che questa fonte produrrà ancora circa il 30% dell’elettricità al 2040. Con così tanto carbone come si fa a rispettare il limite dei 2 °C?

Il carbone produce oggi il 41% dell’elettricità ed è la fonte più usata in grandi paesi come Cina o Usa. E anche se è responsabile del 73% delle emissioni di CO2 da elettricità, l’uso del carbone non è diminuito, ma aumentato in questi ultimi anni. Noi raccomandiamo di tagliare velocemente i consumi di carbone, eliminando le centrali più inefficienti, che producono la metà della sua CO2, e crediamo che nei paesi sviluppati l’uso di questa fonte calerà continuamente. Ma non è realistico pensare che possa accadere anche nei paesi in via di sviluppo, in tempi così brevi. Per cui, l’unica strada possibile che vediamo per evitare di superare i 2°C, è quella di accoppiare l’uso del carbone a tecniche di sequestro sotterraneo della CO2 (CCS).

Ma scienziati come Mark Delucchi and Mark Jacobson della Stanford University continuano invece a produrre ricerche dove si afferma che sistemi energetici al 100% rinnovabili sono possibili quasi ovunque nel mondo, già entro il 2050. Non è che sottostimate troppo il potenziale di queste fonti, come del resto avete fatto più volte in passato?

Secondo i nostri scenari più favorevoli, le rinnovabili al 2050 forniranno circa il 65% della generazione elettrica, trainate soprattutto da solare ed eolico, ma anche da un raddoppio dell’idroelettrico. In altri settori, come i trasporti, però, la loro penetrazione sarà minore. E molti governi devono ancora eliminare gli ostacoli alla loro diffusione come le difficoltà dell’accesso alle reti e ai finanziamenti, o politiche di sostegno troppo incerte e variabili. Così, anche se la dinamica attuale delle crescita delle rinnovabili è impressionante, non riteniamo che sia sufficiente a prevenire da sola un aumento sopra i 2°C. Non è neanche esatto dire che nel recente passato abbiamo sbagliato le proiezioni su queste fonti: le abbiamo indovinate per eolico, idro e biomasse, sottostimando solo il FV, che comunque rappresenta ancora solo l’1% della produzione elettrica mondiale. In ogni caso noi facciamo le nostre stime basandoci sulle condizioni presenti nell’anno della stesura del rapporto: se queste in futuro, per quanto riguarda le rinnovabili, dovessero migliorare ancora, ne terremo sicuramente conto, aggiornando gli scenari.

Ma i vostri scenari sono compatibili con il fatto, che secondo quanto riportato su Nature nel 2015 da Mc Glade and Ekins, per rispettare il +2 °C, dobbiamo lasciare sottoterra l’83% delle riserve di carbone, il 49% di metano e il 33% di petrolio?

Le nostre analisi concordano con quelle stime: se non si userà in maniera massiva il CCS, due terzi delle riserve di combustibili fossili dovranno restare sottoterra. Ma questo non significa che si possano abbandonare di colpo gli investimenti nello sviluppo delle riserve di quei combustibili. In primo luogo, quelle fonti saranno indispensabili ancora a lungo: anche nel nostro scenario con CO2 che resta sotto al livello dei 450 ppm, al 2040 stimiamo che il 60% dell’energia primaria, quindi elettricità, trasporti e calore, verrà ancora dai fossili, con petrolio e gas al 22% e il carbone al 16%. E serve comunque l’85% degli attuali investimenti in queste fonti, solo per tenere costante la loro produzione.

Nei vostri rapporti voi fate notare come l’India si appresti a diventare la “nuova Cina” in termini di emissioni di CO2. Ma la stessa Cina sta diminuendo consumo di carbone ed emissioni più rapidamente del previsto. Non sarà che anche l’India si “decarbonizzerà” prima di quanto prevediate?

Sì, la Cina sta migliorando in modo impressionante: prevediamo che per ogni punto di crescita ulteriore gli servirà l’85% in meno di energia di rispetto al 1990. Questo dovrebbe portare le sue emissioni a raggiungere il picco prima del 2030. Oggi il cinese medio emette quanto l’europeo medio, ma l’India è ancora molto più indietro: le sue emissioni per persona sono ancora meno della metà di quelle cinesi. Per recuperare il suo sottosviluppo, l’economia dovrà quintuplicarsi al 2040, e questo la renderà la maggiore sorgente di aumento di CO2 del mondo, con un quasi raddoppio delle emissioni al 2040. Ma in totale in quell’anno le sue emissioni saranno ancora solo 5,1 miliardi di tonnellate di CO2: quasi la metà di quelle cinesi. E da allora in avanti le tecnologie low carbon, dovrebbero impedire un ulteriore aumento delle emissioni indiane.

Su cosa dovremmo puntare per portare energia a quel miliardo di persone nel mondo che non ha neanche l’elettricità: estensione delle reti centralizzate alimentate da grandi centrali, o micro-reti alimentate dalle rinnovabili?

Non c’è una soluzione univoca. Un nostro studio del 2011 mostrava come per dare accesso all’energia a tutti entro il 2030 il mix ideale sarebbe un 45% distribuito tramite l’estensione della rete tradizionale, un 35% con mini-reti a livello di comunità e il resto con sistemi elettrici off grid. Per quanto riguarda le fonti, il 60% dell’energia ulteriore immessa nella rete centralizzata verrebbe da fossili, carbone in particolare, mentre per quanto riguarda mini-reti e stand alone, il 90% sarebbe fornito da rinnovabili.

Infine, lei personalmente come vede il dilemma climatico e la possibilità di risolverlo?

Penso che la Cop21 sia un fondamentale punto di svolta, molto dipenderà da cosa uscirà da quella conferenza. Come IEA riteniamo che la Cop21 avrà successo solo se includerà nell’accordo finale questi quattro “pilastri”: prevedere misure per raggiungere entro il 2020 un picco delle emissioni; prevedere un meccanismo di revisione quinquennale dei target nazionali, così da alzarli se possibile; far sì che gli obbiettivi climatici siano tradotti in chiari obbiettivi collettivi e di lungo termine di riduzione delle emissioni; non limitarsi all’accordo, ma prevedere anche un processo di verifica dei progressi acquisiti.

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